Fecondazione eterologa e coppie dello stesso sesso, le sentenze della Corte europea

di Maria Teresa Lattarulo
Due recenti sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno riguardato temi molto dibattuti negli ordinamenti interni. Una prima è il caso S. H. ed altri c. Austria del 1° aprile 2010 in cui la Corte si è pronunciata sulla fecondazione eterologa. I ricorrenti, tutti cittadini austriaci, sono due coppie sposate che vivono in Austria e che, soffrendo di infertilità, sperano di utilizzare tecniche di procreazione medicalmente assistita non consentite nel diritto austriaco.
La Corte ha rilevato che tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa non vi è un approccio uniforme alla procreazione medicalmente assistita e che gli Stati non hanno alcun obbligo di consentirla. Tuttavia, una volta che la decisione sia stata presa in tal senso, il quadro normativo che disciplina la procreazione artificiale deve essere formulato in modo coerente con i diversi interessi legittimi coinvolti.
Nel caso di specie i ricorrenti sono stati oggetto di una disparità di trattamento rispetto a persone in una situazione simile. Al fine di valutare se nel caso di specie tale disparità di trattamento fosse giustificata, la Corte ha esaminato la situazione delle due coppie separatamente.
Per quanto riguarda la situazione di H.E.-G. e M.G. e il loro desiderio di ricorrere alla fecondazione in vitro con l'uso di ovuli di un donatore, la Corte non è stata convinta dall'argomento del Governo austriaco secondo cui un divieto totale fosse l'unico modo per prevenire i rischi associati a questa tecnica. Il rischio che le donne possano essere sfruttate e che la tecnica possa essere utilizzata per la riproduzione selettiva è un argomento che potrebbe essere usato anche nei confronti di altri mezzi di procreazione artificiale. Inoltre, il diritto austriaco non consente la remunerazione per l'ovodonazione. L'argomento che ottenere ovuli a scopo di donazione sia un rischioso intervento medico potrebbe ugualmente essere sollevato in merito alla fecondazione in vitro in cui gli ovuli vengono presi dalla stessa donna che aspira a diventare madre, una tecnica consentita in Austria.
Per quanto riguarda l'argomento che l'uso di ovuli di un donatore per la fecondazione in vitro crei relazioni familiari inusuali, la Corte ha rilevato che le relazioni familiari che non seguono il tipico rapporto genitore-figlio in base ad un diretto collegamento biologico non sono nulla di nuovo. Esse esistono dall'istituto dell'adozione che ha creato un vincolo di parentela non basato sulla discendenza, ma sul contratto. La Corte non vede ostacoli insormontabili per le relazioni familiari derivanti da un utilizzo riuscito delle tecniche di procreazione artificiale in questione nel quadro generale del diritto di famiglia. Essa ha quindi concluso, con cinque voti contro due, che vi è stata una violazione dell'articolo 14, in combinato disposto con l'articolo 8.
Per quanto riguarda la situazione di S.H. e D.H. e il loro desiderio di ricorrere alla fecondazione in vitro con l'uso di seme di un donatore, la Corte ha osservato prima che questa tecnica di procreazione artificiale ha unito due tecniche che da sole non erano consentite dalla legge sulla procreazione artificiale, cioè la fecondazione in vitro con ovuli e spermatozoi della coppia stessa, da un lato e la donazione di seme per concepimento non in vitro, dall'altro. Un divieto della combinazione di queste tecniche lecite avrebbe quindi richiesto argomenti particolarmente convincenti. La maggior parte degli argomenti addotti dal Governo, tuttavia, non sono specifici per la donazione di seme per la fecondazione in vitro. Quanto all'argomento del Governo che la fecondazione artificiale non in vitro è stata in uso per qualche tempo, è facile da gestire e la sua proibizione pertanto sarebbe difficile da monitorare, la Corte ha rilevato che una questione di mera efficienza ha meno peso di una questione di principio sulla base di convinzioni morali ed etiche condivise dalla società. Bilanciando questi argomenti relativamente deboli con l'interesse dei ricorrenti, il loro desiderio di concepire un figlio, la Corte ha constatato che la differenza di trattamento in questione non era giustificata. Ha quindi concluso, con sei voti a uno, che vi era stata una violazione dell'articolo 14 in combinato disposto con l'articolo 8.
Ai sensi dell'articolo 41 (equa soddisfazione) della Convenzione, la Corte ha assegnato ad ogni coppia richiedente diecimila euro a titolo di danno non patrimoniale.
In entrambi i casi, la Corte europea ha condannato lo Stato austriaco per la violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 8 della Convenzione.
Il ragionamento dei giudici della Corte ha preso le mosse dalla irragionevolezza del divieto di fecondazione eterologa allorché la normativa nazionale consenta il ricorso alla fecondazione omologa. Tale divieto introdurrebbe infatti una inammissibile discriminazione fra le coppie che possono ricorrere con successo alla fecondazione omologa e quelle per le quali l’unica possibilità di concepire un figlio consiste nelle tecniche di fecondazione eterologa. Dalla sentenza sembra emergere dunque il principio in base al quale persone che si trovano nella medesima condizione di infertilità non possono essere trattate diversamente solamente in ragione della diversa tecnica di fecondazione utilizzata. Il divieto di fecondazione eterologa sarebbe pertanto consentito solamente negli ordinamenti che proibiscono anche la fecondazione omologa.
La sentenza della Corte potrebbe avere significative ripercussioni anche sull’ordinamento italiano. La legge n. 40 del 2004, la quale regola la materia della procreazione medicalmente assistita vietando in modo assoluto l’intervento di un donatore esterno alla coppia coniugata o convivente (art. 4, comma 3), presenta infatti numerosi punti di affinità con la normativa austriaca sottoposta al vaglio della Corte europea. Vi è dunque il rischio di una condanna dello Stato italiano dinnanzi alla stessa Corte. Inoltre, dopo la sentenza in esame sono stati presentati numerosi ricorsi presso alcuni tribunali italiani con l’obiettivo di sollevare una questione di costituzionalità vertente sull’art. 4 della legge 40. Oltre a denunciare la violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione, i ricorrenti lamentano altresì la violazione dell’art. 117 Cost. richiamando, da un lato, la pronuncia della Corte europea e, dall’altro, le sentenze 348 e 349 del 2007, con le quali è stato affermato per la prima volta che la Convenzione europea è parametro di costituzionalità delle norme di legge interne.
Un’altra importante pronuncia è il caso Schalk and Kopf c. Austria del 24 giugno 2010, riguardante il matrimonio fra coppie dello stesso sesso. I ricorrenti, Horst Michael Schalk e Johann Franz Kopf, sono cittadini austriaci nati nel 1962 e nel 1960 rispettivamente e vivono a Vienna.
Nel settembre 2002 essi hanno chiesto alle autorità competenti di consentire loro di contrarre matrimonio. La loro richiesta è stata respinta dall’ufficio comunale di Vienna per il fatto che il matrimonio può essere contratto soltanto tra due persone di sesso opposto. I ricorrenti hanno depositato un ricorso al governatore regionale di Vienna che ha confermato l'opinione dell'ufficio comunale nel mese di aprile 2003.
In una successiva denuncia costituzionale, i ricorrenti sostengono in particolare che l'impossibilità giuridica per loro di sposarsi costituiva una violazione del loro diritto al rispetto della vita privata e familiare e del principio di non discriminazione. La Corte Costituzionale ha respinto la loro denuncia nel dicembre 2003, considerando in particolare che né la Costituzione austriaca, né la Convenzione europea dei diritti dell'uomo richiedono che il concetto di matrimonio, in quanto orientato alla possibilità della genitorialità, debba essere esteso a rapporti di natura diversa e che la tutela dei rapporti tra persone dello stesso sesso ai sensi della Convenzione non ha dato luogo ad un obbligo di cambiare la legge del matrimonio.
Il 1 ° gennaio 2010 è entrata in vigore in Austria la legge delle coppie registrate, al fine di fornire alle coppie dello stesso sesso un meccanismo formale per riconoscere e attribuire validità giuridica ai loro rapporti. Mentre la legge prevede per i partner registrati molti degli stessi diritti ed obblighi previsti per i coniugi, alcune differenze permangono; in particolare i partner registrati non sono autorizzati ad adottare un bambino, né è permessa loro l’adozione di un figliastro o l'inseminazione artificiale.
La Corte ha esaminato in primo luogo se il diritto di sposarsi garantito a "uomini e donne" dall’art. 12 della Convenzione possa essere applicato alla situazione dei ricorrenti. Per quanto riguarda la loro tesi secondo cui nella società di oggi la procreazione dei figli non è più un elemento decisivo in un matrimonio civile, la Corte ha affermato che già in un altro caso essa aveva ritenuto che non si possa ritenere che l'incapacità di concepire un figlio di per sé escluda il diritto di sposarsi. Tuttavia, questa constatazione e la giurisprudenza della Corte secondo la quale la Convenzione dev’essere interpretata in condizioni di attualità non ha permesso la conclusione, tratta dai ricorrenti, che si debba interpretare l'articolo 12 nel senso che esso obblighi gli Stati membri a prevedere l'accesso al matrimonio per le coppie dello stesso sesso.
La Corte ha osservato che tra i membri del Consiglio d'Europa non vi è consenso per quanto riguarda il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Vista la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, alla quale il Governo austriaco aveva fatto riferimento nelle sue memorie, la Corte ha rilevato che il relativo articolo, la garanzia del diritto di sposarsi, non include un riferimento a uomini e donne, il che ha consentito la conclusione che il diritto di sposarsi non deve in ogni caso essere limitato al matrimonio tra due persone di sesso opposto. Allo stesso tempo, la Carta lascia la decisione se consentire o meno il matrimonio tra persone dello stesso sesso alla legge nazionale degli Stati membri. La Corte ha sottolineato che le autorità nazionali sono nella posizione migliore per valutare e rispondere ai bisogni della società in questo campo, dato che il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali profondamente radicate che differiscono in gran parte da una società all'altra.
In conclusione, la Corte ha rilevato che l'articolo 12 non impone un obbligo al Governo austriaco di garantire l'accesso al matrimonio a una coppia dello stesso sesso come i richiedenti. Ha quindi dichiarato all'unanimità che non vi è stata alcuna violazione di tale articolo.
Quanto alla violazione dell'articolo 14, in combinato disposto con l'articolo 8, la Corte ha innanzitutto esaminato la questione se la relazione fra una coppia dello stesso sesso come i ricorrenti cada non solo nell'ambito della nozione di "vita privata", ma costituisca anche "vita familiare" ai sensi dell'articolo 8. Nel corso dell'ultimo decennio, una rapida evoluzione di atteggiamenti sociali nei confronti delle coppie dello stesso sesso ha avuto luogo in molti Stati membri e un numero considerevole di Stati hanno offerto loro riconoscimento giuridico. La Corte ha pertanto concluso che la relazione fra ricorrenti, una coppia convivente dello stesso sesso che vive un rapporto stabile, rientra nel concetto di "vita familiare", così come farebbe il rapporto di una coppia di sesso diverso nella stessa situazione.
La Corte ha ripetutamente affermato che una disparità di trattamento fondata sull'orientamento sessuale richiede motivi particolarmente gravi a titolo di giustificazione. Deve essere dato per scontato che le coppie dello stesso sesso siano altrettanto capaci, al pari delle coppie di sesso diverso, di dar vita a relazioni stabili ed impegnate; esse sono di conseguenza in una situazione significativamente simile per quanto riguarda il bisogno di riconoscimento giuridico del loro rapporto. Tuttavia, dato che la Convenzione deve essere letta nel suo insieme, vista la conclusione che l'articolo 12 non impone l'obbligo agli Stati di garantire alle coppie dello stesso sesso di accedere al matrimonio, la Corte non ha potuto condividere il parere dei ricorrenti che tale obbligo possa farsi derivare dall’articolo 14 in combinato disposto con l'articolo 8.
Considerato che con l'entrata in vigore della legge sulle coppie registrate in Austria è stato consentito ai ricorrenti che il loro rapporto fosse formalmente riconosciuto, non è compito della Corte stabilire se l'assenza di qualsiasi mezzo di riconoscimento giuridico per le coppie dello stesso sesso avrebbe costituito una violazione dell'articolo 14 in combinato disposto con l'articolo 8 se questa situazione fosse persistita. Resta da verificare se l'Austria avrebbe dovuto fornire ai ricorrenti un mezzo alternativo di riconoscimento giuridico del loro rapporto prima di quanto ha fatto. La Corte ha osservato che, mentre c'è stato un crescente consenso europeo verso il riconoscimento giuridico delle coppie dello stesso sesso, la maggioranza di Stati ancora non fornisce tale riconoscimento. La legge austriaca riflette questa evoluzione; anche se non all'avanguardia, il legislatore austriaco non può essere rimproverato di non aver introdotto prima la legge sulle coppie registrate.
La Corte non è stata convinta dalla tesi secondo cui se uno Stato ha scelto di offrire alle coppie dello stesso sesso un mezzo alternativo di riconoscimento, è tenuta a conferire loro uno status che corrisponde al matrimonio a tutti gli effetti. Il fatto che la legge sulle coppie registrate abbia mantenuto alcune sostanziali differenze rispetto al matrimonio in materia di diritti dei genitori corrisponde in gran parte alla tendenza in altri Stati membri. Inoltre, nel caso di specie, la Corte non ha dovuto esaminare ognuna di queste differenze nel dettaglio. Poiché i ricorrenti non hanno sostenuto di essere stati direttamente colpiti dalle rimanenti restrizioni in materia di diritti dei genitori, sarebbe andato al di là dell’ambito della domanda stabilire se queste differenze fossero giustificate.
Alla luce di queste constatazioni, la Corte ha concluso, con quattro voti contro tre, che non vi è stata alcuna violazione dell'articolo 14, in combinato disposto con l'articolo 8.
Si segnala come, in questa sentenza, la Corte compia un passo avanti rispetto alla sua precedente giurisprudenza che aveva sempre fatto rientrare le coppie dello stesso sesso nella nozione di “vita privata” e non in quella di “vita familiare”. In Italia l’incostituzionalità delle norme che riservano il matrimonio a coppie di sesso diverso è stata recentemente esclusa con la sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 2010.