Referendum 12 e 13 giugno: un breviario contro la disinformazione

di Maria Teresa Lattarulo. Nel dibattito sui referendum si assiste ad uno scontro di opinioni e valutazioni politiche. Fermo restando che tutte le opinioni sono parimenti rispettabili e ammissibili, vi sono casi però in cui si riscontra una vera e propria disinformazione. Ciò si verifica in particolare con riguardo al primo quesito referendario, anche per la particolare complessità delle questioni giuridiche che esso implica.
Convinti che per poter fare scelte consapevoli, quali che esse siano, bisogna essere bene informati, elenchiamo di seguito alcuni dei principali fraintendimenti ed errori, tentando di apportare chiarezza.

E’ vero che la norma che si vuole abrogare non realizzerebbe una privatizzazione del servizio idrico come affermano invece i sostenitori del referendum?

I sostenitori del no affermano che la proprietà del servizio idrico resterebbe pubblica, mentre solo la sua gestione sarebbe affidata a privati. Non ci sarebbe quindi una privatizzazione, ma solo una liberalizzazione per una gestione più efficiente.
In effetti la proprietà dell’acqua e delle reti idriche resta pubblica; tuttavia, nella moderna società, da tempo ciò che conta non è la proprietà, ma la gestione dei beni. Si pensi ad una società per azioni nella quale chi assume le decisioni non è certo il singolo azionista, ma l’amministratore delegato. Non c’è quindi una privatizzazione formale, ma sostanziale. Per capirlo basta chiedersi: chi comanda nella Fiat, l’azionista che è il proprietario o Marchionne che è il gestore?

E’ vero che la norma che si vuole abrogare è imposta dall’Unione europea? E’ vero quindi che, anche se vincessero i sì, non cambierebbe nulla perché si dovrebbe comunque applicare la privatizzazione per obbligo comunitario?

La gestione privatistica dei servizi pubblici essenziali, tra cui il servizio idrico, non è imposta dal diritto dell’Unione che lascia sul punto libertà di scelta agli Stati. Al contrario, l’istituto della società in house, che il decreto Ronchi vuole sopprimere, è stato creato proprio dalla Corte di Giustizia, a partire dalla sentenza Teckal, come strumento per la gestione diretta di servizi pubblici essenziali da parte degli enti locali. L’inesistenza di obblighi dell’Unione nella materia è stata ribadita dalla Corte Costituzionale nelle sentenze nn. 24 e 26 del gennaio 2011 ed è confermata dal fatto che molti Stati europei hanno escluso la privatizzazione della gestione dell’acqua: in tal senso si sono orientati da tempo il Belgio e l’Olanda, mentre la città di Parigi, dopo decenni di privatizzazione, ha scelto di recente la ripubblicizzazione dell’acqua.

E’ vero che con la norma che si vuole abrogare si realizzerebbe una concorrenza nella gestione del servizio idrico che condurrebbe a maggiore qualità e minori tariffe?

I sostenitori del no presentano il referendum come uno scontro fra chi crede nell’efficienza del mercato e chi sostiene posizioni economiche superate. La liberalizzazione, attraverso la concorrenza fra le imprese, dovrebbe portare ad un processo virtuoso di miglioramento del servizio e di riduzione delle tariffe per conquistare il consumatore. Si afferma che solo i privati potrebbero fare investimenti per migliorare le condizioni della rete idrica.
In realtà non ci può essere una concorrenza nella fornitura dell’acqua perché non è possibile farla arrivare ai nostri rubinetti se non attraverso le reti esistenti. Il gestore della rete, quindi, è l’unico possibile fornitore e si trova, di conseguenza, in una situazione di monopolio di fatto. La liberalizzazione riguarda il momento della aggiudicazione della gestione mediante gara, ma, una volta aggiudicato il servizio, il gestore è un vero e proprio monopolista. E’ meglio un monopolista privato o uno pubblico? E’ credibile che un privato, in condizioni di monopolio, si sobbarcherebbe delle spese per il miglioramento del servizio anziché massimizzare i suoi profitti?

E’ vero che se vincessero i sì si tornerebbe alla gestione da parte delle municipalizzate e dei “carrozzoni” politici, con aumento della corruzione e del clientelismo?

Innanzitutto va premesso che, ormai da tempo, non esistono più le aziende municipalizzate e che la gestione dei servizi pubblici è affidata a società per azioni che, anche quando sono a totale capitale pubblico, restano pur sempre società sottoposte al diritto privato e a criteri di economicità di gestione. Per capire cosa succederebbe se vincessero i sì bisogna ricordare la situazione anteriore al decreto Ronchi. L’art. 133 del Testo Unico degli enti locali, con riguardo ai servizi pubblici locali di rilevanza economica, prevedeva tre diverse alternative, poste sullo stesso piano fra loro: la prima possibilità era quella della privatizzazione attraverso l’affidamento della gestione ad una società di capitali scelta mediante gara; la seconda possibilità era incentrata sul meccanismo dell’in house providing, cioè dell’affidamento diretto a società per azioni a capitale pubblico; la terza sull’affidamento del servizio a società a capitale misto per le quali non venivano posti particolari requisiti. L’art. 23 bis l. 133/2008 che è stato ulteriormente modificato dal d.l. 135/2009 ha abrogato tale disciplina imponendo agli enti pubblici di affidare la gestione solo a società private, ovvero a società miste con capitale privato pari almeno al 40% e stabilendo l’automatica estinzione, entro la fine di quest’anno, di tutte le società di gestione esistenti a capitale totalmente pubblico e di quelle miste con capitale privato inferiore al 40%. Sebbene ci siano discussioni in proposito, l’abrogazione dell’art. 23 bis dovrebbe far rivivere la disciplina precedente. Non è vero quindi che si ritorna ai carrozzoni pubblici. L’effetto della vittoria dei sì sarà semplicemente che gli enti locali saranno liberi di scegliere se affidare il servizio a privati, a società miste o a società a capitale pubblico. La privatizzazione non viene eliminata, ma resta una strada percorribile al pari delle altre.