“Mi chiamo Birahima”: il mio lavoro è la guerra


di Francesco Greco. Birahima è solo al mondo. Per sopravvivere ha un kalashnikof a tracolla e fa la guerra passando dalla Costa d’Avorio alla Liberia alla Sierra Leone (“casino al quadrato”) in cerca di Zia Mahan che si prenda cura di lui. Per l’Africa il bambino-soldato è un archetipo, e lo è anche un parente che se ne prende cura se i genitori muoiono, e in assenza, anche un vicino di casa. “Sono aspetti di una cultura che noi europei non capiamo…”, osserva la regista-attrice teatrale Paola Surace (origini calabresi, studi specifici a Roma, vive a Ostia Lido). Dopo un collaudo di 3 anni in giro per l’Italia e un successo costante, “Faden Kele” (“Mi chiamo Birahima”), è in Puglia, al “Massarone” di Montesardo (qui un tempo le famiglie coltivavano il tabacco e ricoveravano i greggi), nell’ambito della XII edizione del Festival “Il Montesardo” cofinanziato da Comune di Alessano (Le) e Regione Puglia. Si tratta di una libera trasposizione dal romanzo “Allah non è mica obbligato” di Amadou Kourama, uscito nel 2000 per UE. Paola l’ha riscritto più volte rendendolo essenziale, di grande effetto scenico: “E’ uno spettacolo – aggiunge – nato dall’incontro di due culture: occidentale e africana. La guerra vista con lo sguardo di un bambino, che mitiga l’impatto con le infinite asprezze. Il testo è nato dopo infinite discussioni con Abou Toure”.
Il racconto che Birahima-Abou Toure (viene dalla Costa d’Avorio, vive a Roma da 7 anni ed è un attore eccezionale: per sembrare bambino recita sulle ginocchia, canta canzoni sensuali, anche un lamento funebre quando trova la Zia in una fossa comune e si muove su una scenografia di gomme d’auto consunte) fa della sua vita non trasmette angoscia ma costringe a un rabbioso silenzio, la narrazione mette a nudo archetipi sideralmente lontani dall’Occidente, ma che per oltre un miliardo di abitanti, ricco di risorse naturali (oro, diamanti, silicio) ma poverissimo, sono la dura realtà. E dunque, al confine della foresta i bambini diventano grandi all’improvviso. Nello sguardo di Birahima (lo faranno capitano) tutte le contraddizioni di un’Africa che dietro i depliant turistici, da Karen Blixen ai safari alle falde del Kilimangiaro, cela altre facce. Sottolineate nei passaggi più significativi da tamburi e altri strumenti di Giulio Candiolo e Patrizia Conversi, musicisti romani.
Ecco la quotidianità trasfigurata in archetipi su cui comunità internazionale, Onu, chiese e associazioni di diritti umani chiudono uno, due occhi. Sangue e fuoco, superstizioni e cannibalismo, fosse comuni, immense ricchezze nelle mani di pochi, povertà estreme, indovini, droga e falsari, amuleti contro le sventure e crudeli tiranni, preti cattolici e avventurieri in divisa, analfabetismo, visioni mistiche, alcol, violenza carnale. Tutto è sospeso in un tempo infinito, dilatato, dove c’è solo il presente, ogni futuro è negato, fra gli orrori di guerre tribali e umanità che reclama dignità, col sangue innocente che scorre senza requie impregnando la foresta, il deserto e la morte che segna il tempo danzando una rapsodia insulsa; sullo sfondo sfavillano oro e diamanti. Il viaggio di Birahima è un’iniziazione e la Zia Mahan metafora del sogno di quotidianità di tutti i bambini, per sottrarsi alla transumanza su un barcone schiaffeggiato dalle onde verso la “terra promessa”. Lontani da un Continente nelle mani di governi violenti e corrotti sostenuti da multinazionali che badano ai profitti e allo sfruttamento, negando pane e dignità a un miliardo di persone su cui hanno potere di vita e di morte.
“Una preghiera per il capitano Kik – invoca Abou – un bambino-soldato che ha conosciuto una guerra che non capisco e che non so spiegare… Era nato in un villaggio, che un giorno fu incendiato, i bambini che erano a scuola si rifugiarono nella foresta... Quando un bambino non ha niente, né padre e madre, fratelli e sorelle, nonni e nonne, zii e zie, fatto di hashish, si mette un kalashnikof in spalla , il nemico attacca in qualsiasi momento e deve esser pronto… Una preghiera per Sara, bambina-soldato, in guerra sono le più feroci… Quando la madre morì la affidò a una donna che aveva già tre figli e vendeva banane… Un giorno non tornò a casa e un uomo che pareva gentile la violentò… Si svegliò in un ospedale di suore, che fu attaccato… I bambini-soldato non sono pagati, ma hanno diritto a depredare quel che vogliono… In cerca di Zia Mahan sono giunto in Liberia… Nel quartiere comanda Taylor, arricchito rubando al governo… Mia madre era molto bella, elegante come una gazzella… Lo spirito ne prendeva una ogni stagione, chissà perché sempre la più bella… Il sangue non smetteva di zampillare… Da allora camminava sui glutei… Quando morì mio padre mia madre si risposò ma fu un matrimonio bianco… Ci portarono nella foresta, ci tagliarono il prepuzio, tamponarono col limone: bruciava… Mi affidarono a un indovino, fabbricante di amuleti e moltiplicatore di banconote… La sera c’erano i processi: indicavano uno a caso e l’uccidevano… Chissà perché liberavano dagli spiriti solo le più belle… Era cattolico, che vuol dire che non era musulmano… Il dittatore fa amputare le mani agli elettori per non farli votare, il mondo finge di controllare…”.
Applausi nella sciroccosa notte magno-greca in una location (a due passi il frantoio di Sant’Anciulu), evocatrice di memorie di un passato epico che scorre quieto nel nostro sangue. Sipario.