Trani: quando la parola speranza è sinonimo di vita fra le sbarre

di Nicola Ricchitelli. Negli ultimi tempi il carcere di Trani per le cronache dei giornali è stato sinonimo di proteste, rivolte e scioperi della fame e non solo, visto che sono mancati i casi di tentato suicidio, aggressioni alle guardie carcerarie, nonché le mille polemiche legate al rinvenimento di Gregorio Durante – giovane di 34 anni di origine leccese – trovato privo di vita lo scorso gennaio. Tante sono state le iniziative messe in atto dal consigliere regionale Franco Pastore nel corso degli anni al fine di richiamare l’opinione pubblica sulla condizione dei detenuti e delle detenute ospiti del carcere di Trani e del carcere femminile.

D: Franco, da anni oramai è noto il tuo impegno al fine di garantire i diritti dei carcerati. Da dove nasce e come nasce l’attenzione nei confronti di un mondo cui si spendono sempre poche parole
R:«Proprio da questo. Non mi piacciono le disuguaglianze, non mi piace che si parli solo e sempre di chi riesce, di chi è vincente. Esiste anche chi commette degli errori, o chi non ce la fa perché non tutti abbiamo le stesse possibilità. C’è chi parte con dei vantaggi, c’è chi invece nasce in famiglie, luoghi e contesti all’interno dei quali è difficile rendersi conto che quel modo di vivere, apparentemente normale, non lo è. A queste persone bisogna pensare più che agli altri. Non per compassione, ma per giustizia sociale». D:Com’è la vita di una persona costretta a vivere in una cella di due metri per due metri? R:«Io non so come sia, posso solo immaginarlo da quello che ho visto, ascoltato e, soprattutto, da quello che non mi è stato detto ma che era chiaro nei comportamenti di chi lo ha provato. Non c’è dignità nel condividere quello che normalmente viviamo come le abitudini più intime della nostra esistenza, come andare in bagno. Conosco, però, anche un’altra realtà. Quella del carcere femminile di Trani, una casa di lavoro per le detenute, che hanno possibilità di studiare e svolgere molte altre attività. Noi abbiamo anche fatto in modo che assistessero a un concerto di musica classica, è stato molto bello che lo abbiano gradito e apprezzato, di sicuro lo ricorderanno, per molte di loro è stato il primo e speriamo non l’ultimo a cui assisteranno».
D: Nel corso degli anni molte sono state le iniziative organizzate presso il carcere di Trani. Quanti e quali i problemi che maggiormente attagliano i detenuti?
R:«Tanti e differenti, l’uno dall’altro. Ci sono gli stranieri, con loro si comincia dalla difficoltà di comunicare. Poi ci sono gli spacciatori, spesso tossicodipendenti a loro volta, il carcere non è il modo migliore per evitare che continuino a drogarsi e, dunque, a spacciare “al dettaglio”. C’è chi sbaglia e lo rifà pur avendo avuto un’altra possibilità, per queste persone il carcere è una tappa obbligata oltre che sistematica, delinquere è il loro modo di vivere. Sono queste persone il pericolo più grande, in carcere, per chi molti ragazzi che invece non dovrebbero essere lì, che hanno cominciato negli istituti minorili per poi ritrovarsi a contatto con criminali che li “svezzano” a più alti livelli. Purtroppo, con rammarico, devo sottolineare come spesso il carcere non solo non sia luogo di recupero e rieducazione ma sia, al contrario, il luogo peggiore dove si possa capitare, un luogo in cui sono maggiori le possibilità di venire fuori peggio di quando non vi sia entrato».
D:Quanti e quali i problemi che ogni giorni si ritrovano ad affrontare gli agenti di polizia penitenziaria?
R:«Sono pochi, non ce la fanno, hanno ferie arretrate di cui non riescono a godere e la grande responsabilità di garantire la sicurezza in luoghi delicati e complessi come un carcere, dove si creano dinamiche che dal di fuori non è semplice capire. Lavorare in questo modo non va bene per nessuno, si va avanti alla giornata».
D: Nel corso del tempo immagino le tante testimonianze raccolte, così come tante immagino saranno le storie dei vari detenuti cui sei venuto a conoscenza. Quale la storia che maggiormente ti ha colpito? R:«Al di là delle storie, che sono tutte tristi e assurde, perchè la realtà sa sempre stupire nel bene e nel male, quello che mi colpisce, ogni volta, sono i legami. La visione per me di un bambino di pochi anni che va in quel luogo a parlare con suo padre è quasi insopportabile. Io ho domandato se avere dei figli, una persona cara, una moglie non spinga a pensarci due volte, davanti alle risposte che ho ricevuto non potuto aggiungere molto se non uno sguardo privo di giudizio, che ho dovuto sospendere».
D: Cosa ci puoi raccontare di tutte quelle famiglie che vivono i loro parenti attraverso il vetro di un parlatorio?
R:«Posso raccontare la “normalità” disarmante con cui vivono questa condizione. È come se fossero rassegnati, come se le loro vite fossero irriscattabili, come se a loro spettasse quello e basta, come se quello fosse il loro destino. Io a queste persone cerco di spiegare che non è così, che hanno diritto di vivere meglio, che per questo devono incoraggiare chi è “dentro” e cercare di fare meglio nella vita, soprattutto i bambini. A loro mi è piaciuto regalare dei libri, delle storie, migliori di quella che vivono a volte da quando sono nati, per offrirgli un orizzonte più ampio e diverso da quello in cui sono costretti, che non è bello, non è adatto ai bambini. Queste famiglie vanno aiutate, se quelle donne trovassero un lavoro sarebbe un bene anche per i coniugi una volta fuori, avrebbero il tempo per trovare, provare a trovare un lavoro onesto».
D: Quali le azioni individuabili affinché dopo gli anni di detenzione vi sia un giusto reinserimento nella società civile?
R:«Le azioni individuali non sono molte, ce n’è una: fare un investimento di fiducia su queste persone, dargli una possibilità, offrirgli un lavoro. La cooperativa di Gravina in Puglia Campo dei miracoli, lavora con i detenuti da anni, preparano taralli distribuiti dalla grande distribuzione. Funziona. Magari non è la “ricetta” per tutti, ma per molti sì. Se un detenuto quando è fuori può vivere da persona onesta è meglio per tutti». D: Che significato assume la parola speranza per un detenuto? R:«E’ il bene più importante, la sua ricchezza, se un detenuto la perde e quando la perde, muore, e molte volte questa non è una metafora. I casi di suicidio in carcere sono troppi, lo sappiamo. La speranza è vita fra le sbarre».

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