Sergi, l’acqua e i sassi per svelare la nostra anima

di Francesco Greco.
GALLIPOLI – Quei gabbiani che scendono dal cielo a cercare il cibo sulla spuma dell’onda, sono trattenuti da infide reti che tarpano il loro volo. E’ un’allegoria del confuso momento storico che attraversiamo: vorremmo innalzarci nel cielo in cerca della bellezza, della poesia, una nuova vita, ma forze oscure, inquietanti ce lo impediscono. Così restiamo sospesi e intrappolati fra il sogno possibile e la dura realtà di una quotidianità volgare e sudicia.
E’ una delle interfacce (in passato affascinò molto la poetica dei “pacchi” nata dalla sua condizione di emigrante, ma anche le sue scultopitture e le installazioni nei luoghi più impensati) della polisemica proposta artistica di Luigi Sergi, pugliese con casa a Novara (dove insegna materie artistiche) che in questi giorni si propone al Museo Diocesano di Gallipoli (sino al 27 agosto). Titolo: “Trasparenze”.
Sono quelle del suo mare che si frange sulle ripide scogliere dell’Adriatico (a due passi da Leukòs), che nelle giornate di tramontana svela il confine fra Albania e Grecia, le montagne, i boschi. Un topos che ispira molte opere dell’artista, dona emozioni profonde che si rinnovano a ogni performance (“Intensa passione”).
Il gioco rarefatto fra ciò che il nostro sguardo osserva in superficie e ciò che dovremmo vedere nonostante Sergi lo ha ben mimetizzato addensandolo di semantica, è una costante della sua arte. Contiene una password psicanalitica che porta all’inconscio, a quel che si agita nel nostro sottosuolo. E si rifà alla “Psicologia della Forma” che ha studiato a Roma entrando in contatto con gli ambienti artistici capitolini.
“Osservo il paesaggio della mia terra e lo reinterpreto a modo mio – confida – niente ulivi e pajare, diverso dall’iconografia corrente: io cerco l’acqua e le pietre”. L’acqua del mare, confondendosi con il cielo sino a ipotizzare un’altra dimensione, è un mezzo per svelare mondi misteriosi, sconosciuti, affascinanti. Ma anche i paesaggi interiori che ci portiamo nello sguardo, inespressi in un mondo che ruba la tua specificità, livella, omologa, appiattisce e che pure continuiamo a cercare coscienti che proprio quelle sovrapposizioni tracciano la nostra identità, la memoria, i confini della nostra anima (“Viaggio nell’anima”).
Sorprende, dell’opera di Sergi, la lettura “aperta”, soggettiva di ogni dipinto: è così sin dagli inizi della sua avventura nel mondo dell’arte. Una libertà ontologica di cui l’artista è il primo a essere felice e godere prima di regalarla agli altri. Chi osserva vede quel che vuole vedere, che non sempre coincide col messaggio affidato a tutte le tonalità del blu.
Mentre gli rivolgevamo qualche domanda, un turista di Bergamo (un manager) si è soffermato su un quadro e per un’ora ha discusso di quella che era la sua visione, la decodificazione. E attraverso la parola, la reciproca contaminazione, all’orizzonte si staglia la “Tranquillità spirituale”. L’utopia possibile, l’aleph che i gabbiani cercano con noi (“Svolazzano felici sull’acqua”).