I dialetti? Possono mandare in tilt anche i tribunali

di Vittorio Polito - L’Italia è la nazione europea più ricca di dialetti. Contare i dialetti è cosa quasi impossibile. Appare quindi difficile tracciare un confine tra un dialetto e l'altro. In ciascun paese e in ogni villaggio il dialetto ha spesso caratteristiche molto diverse che lo differenziano anche tra quartieri di una stessa città e zone limitrofe.
Generalmente si fa riferimento a regioni, a province o a grandi città per definire i dialetti. E così parliamo di dialetto calabrese, piemontese,  lombardo, milanese, pugliese, e così via. Ma in realtà sono denominazioni molto larghe e imprecise, dal momento che non vi sono dialetti legati alla regione poiché le differenze sono tali che rendono difficile la comprensione reciproca perfino all'interno della stessa regione.

Alla luce di quanto sopra immaginate cosa può succedere in un Tribunale durante un’udienza, con persone che parlano e capiscono solo dialetto e quindi con la difficoltà di ben interpretare quanto si va dicendo, sia in relazione alle ragioni degli imputati che delle dichiarazioni dei testimoni, ma anche comprendere il reale significato di quanto dicono giudici e avvocati  e soprattutto di quello che loro stessi capiscono nello svolgersi dei dibattimenti.

“Il Sole 24 Ore” del 21 dicembre scorso riporta un interessante articolo di Donatella Stasio, a proposito della babele dei dialetti che possono mandare in tilt i tribunali.

L’autrice della nota commenta così alcuni emblematici episodi: «Può succedere di tutto: il processo si trasforma in una pièce dell’assurdo o in un tragedia greca. Agrigento, processo per mafia: un avvocato contesta l’esatta traduzione fatta dalla polizia giudiziaria di una telefonata intercettata e chiede di nominare come interprete autentico, dal siciliano all’italiano, lo scrittore Andrea Camilleri. Tribunale di Caltanissetta: un anziano e poco acculturato signore di un paesino dell’entroterra viene sentito come testimone; a interrogarlo è un pm romano di ottima famiglia, che gli chiede con linguaggio forbito:  “Ha percepito emolumenti?”; “Chi cuosa?” risponde il teste; “Ha percepito emolumenti?” insiste il pm, ricevendo però la stessa risposta per almeno 5, snervanti, minuti, tra le risatine del pubblico e l’imbarazzo di giudici e cancellieri; finché il presidente del Tribunale decide di fungere da interprete: “Sa pigghiò a pinsione?”. “Ah! A pinsione! Sì, ma pigghiavu a pinsione, certu che m’a pigghiavu!».

Un altro esempio citato dalla giornalista del “Il Sole 24 Ore” si riferisce a quanto è accaduto a Palermo durante l’esilarante esame di un testimone. «In provincia, “non ci penso” equivale a “non mi ricordo” e “completamente” significa “per niente”. Così, di fronte a un teste reticente che si trincerava dietro continui “non ci penso”, un pm “straniero” cominciò (non senza perplessità) a contestargli le sue precedenti dichiarazioni; alla domanda di rito se ne confermasse il contenuto, il teste rispondeva, perentorio: “Completamente!”, intendendo però che non le confermava affatto, mentre il povero pm, ignorando il modo di dire locale, era convinto che le stesse confermando integralmente e perciò proseguiva spedito e soddisfatto. Per fortuna il giudice (che era un locale) se ne accorse e pose fine al qui pro quo. O al “qui quo qua”, come disse un altro teste, senza bisogno di essere tradotto...».

Pertanto con quanto sopra l’autrice dimostra chiaramente che i dialetti, pur rappresentando un patrimonio culturale importante, non può dirsi la stessa cosa se varcano le sale delle aule giudiziarie, dal momento che la maggior parte dei magistrati e dei cancellieri, ed anche gli stessi interpreti, non avendo dimestichezza con i vari dialetti – conoscendo al massimo il proprio  - non sempre sono in grado di intendere la reale intelligibilità delle parole,  rendendo quindi inattendibile il reale significato di frasi e vocaboli.  
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