Strumenti da 'robaccia': le magie di Alberto Piccinni
di Francesco Greco - Che ci fareste voi con un vecchio imbuto di plastica e un tubo di gomma? Li buttereste alla differenziata: che altro si può fare? Da oggi in avanti non fatelo, perdereste l’occasione di farne qualcosa di affascinante e insospettato. Se ad Alessano (Lecce), o nelle banlieu di Parigi, nel deserto algerino, in un pub di Dublino incontrate Alberto Piccinni, giovane musicista (chitarra dei Muzak, gruppo storico della new wave del rock pugliese, ora scioltosi in altre band), educatore appassionato, viaggiatore instancabile, un personaggio unico, vi convincerebbe che se ne può fare un altro uso: li trasformerebbe in uno strumento musicale. Dalle sue mani nascono così strumenti impossibili, nuovi, capaci di suoni inesistenti, scagliati nel futuro. E da pietra di scarto del Vangelo, rivivono divenendo testata d’angolo e componendo melodie che finiscono in stupende canzoni incise su cd.
“Non li ho inventati – si schermisce Alberto – il loro principio di funzionamento è molto antico, come per quasi tutti gli strumenti acustici: io escogito solo diverse maniere per costruirli con materiale di scarto. Ecco perché ho anche grandi difficoltà nel costruirli, e magari venderli: uso rigorosamente materiale di risulta”.
Domanda: Una strana passione: come nasce?
Risposta: “Ho effettuato molti laboratori con bambini, musicisti, educatori, cultori o disabili, in Italia, Irlanda, Portogallo, Francia, Algeria. In scuole e associazioni, contesti di tipo educativo e sociale”.
D. C’è un retroterra psicanalitico, anche in termini di autostima, in questa passione?
R. “Credo che costruire un suono, per esempio con una piccola cannuccia, e sperimentare il suo funzionamento abbia un forte potere sul controllo che abbiamo dei nostri sensi e delle nostre potenzialità fisiche e sensoriali. Oltre, ovviamente, alla componente della manualità e del gioco”.
D. Indagando il suono nella sua etimologia più stretta, cosa ha scoperto?
R. “Ho sempre trovato molto affascinante concentrarmi sull’esplorazione timbrica e quindi capire il perché di un suono (il materiale, la costruzione, lo spazio di risonanza). L’altra componente che è servita molto per ‘vendere’ il mio laboratorio è quello del riciclo e dell’ambiente, a cui credo realmente, perché in tante occasioni si tratta semplicemente di retorica progettuale e non di interventi mirati al miglioramento o al cambiamento effettivo del contesto in cui si vive. A ogni modo, resta uno dei canali preferenziali con cui riesco a preparare il mio laboratorio”.
D. Quali gli ultimi strumenti costruiti?
R. “Il can fiddle, cioè un violino con scatolette di tonno, il can drum, un kit percussivo di latta, trombette con tubi dell’acqua, tamburelli da sottovasi, fischietti, maracas, flauti a membrana, ance… Ho sempre cercato di unire il suono di questi strumenti alla musica che faccio. Un esempio? Il mio disco ‘Diavolo del bosco’ con il percussionista Riccardo Laganà (Kalà scima, Radiodervish, ecc.)”.
“Non li ho inventati – si schermisce Alberto – il loro principio di funzionamento è molto antico, come per quasi tutti gli strumenti acustici: io escogito solo diverse maniere per costruirli con materiale di scarto. Ecco perché ho anche grandi difficoltà nel costruirli, e magari venderli: uso rigorosamente materiale di risulta”.
Domanda: Una strana passione: come nasce?
Risposta: “Ho effettuato molti laboratori con bambini, musicisti, educatori, cultori o disabili, in Italia, Irlanda, Portogallo, Francia, Algeria. In scuole e associazioni, contesti di tipo educativo e sociale”.
D. C’è un retroterra psicanalitico, anche in termini di autostima, in questa passione?
R. “Credo che costruire un suono, per esempio con una piccola cannuccia, e sperimentare il suo funzionamento abbia un forte potere sul controllo che abbiamo dei nostri sensi e delle nostre potenzialità fisiche e sensoriali. Oltre, ovviamente, alla componente della manualità e del gioco”.
D. Indagando il suono nella sua etimologia più stretta, cosa ha scoperto?
R. “Ho sempre trovato molto affascinante concentrarmi sull’esplorazione timbrica e quindi capire il perché di un suono (il materiale, la costruzione, lo spazio di risonanza). L’altra componente che è servita molto per ‘vendere’ il mio laboratorio è quello del riciclo e dell’ambiente, a cui credo realmente, perché in tante occasioni si tratta semplicemente di retorica progettuale e non di interventi mirati al miglioramento o al cambiamento effettivo del contesto in cui si vive. A ogni modo, resta uno dei canali preferenziali con cui riesco a preparare il mio laboratorio”.
D. Quali gli ultimi strumenti costruiti?
R. “Il can fiddle, cioè un violino con scatolette di tonno, il can drum, un kit percussivo di latta, trombette con tubi dell’acqua, tamburelli da sottovasi, fischietti, maracas, flauti a membrana, ance… Ho sempre cercato di unire il suono di questi strumenti alla musica che faccio. Un esempio? Il mio disco ‘Diavolo del bosco’ con il percussionista Riccardo Laganà (Kalà scima, Radiodervish, ecc.)”.

