VENEZIA '14 / Le “Anime nere” della Calabria dall’innocenza perduta
Dal nostro inviato Francesco Greco. VENEZIA – A fine proiezione, tutti a chiedere al regista romano Francesco Munzi - stordito dal lungo applauso - perché ha usato il dialetto calabrese (ma con le didascalie). Come se, oltre al romanesco, al siciliano, al napoletano, al barese, ecc., anche quell’idioma non possa elevarsi, avere dignità di lingua autonoma, con i suoi fonemi e laricchezza filologica che l’italiano non riesce a racchiudere. E comunque, a ben vedere, èl’espediente che dà forza e credibilità al racconto. (Foto: Onorati / Ansa)
Al tempo della mondializzazione coatta, per sopravvivere nel villaggio globale, non resta che tornare alle radici, ridare l’etimo perduto alle parole stuprate, relativizzate. Affinchè le culture autoctone, marginali (ma lo sono davvero?), nonsiano piallate, formattate. E’ il cinema dell’identità minacciata, lacerata, atomizzata,dell’autostima ebole, della promiscuità stordita, modulato sulla dimensione antropologica, etnica, della memoria che riecheggia nel dna di una famiglia meridionale sbattuta dai marosi del XXI secolo.
Tre fratelli, Rocco, Luigi, Luciano, sono colti tra aspirazioni borghesi, modernizzanti e pulsioni dettate dalla nostaglia, del passato rurale, preindustriale, bucolico, agro-pastorale. In una cultura pregna di Magna Grecia, non può che incubare la tragedia, che arriverà: la banalità del male. Il riferimento è “Rocco e i suoi fratelli” (Luchino Visconti), solo che mezzo secolo è trascorso e noi abbiamo perduto l’innocenza dello sguardo, la sincerità del cuore: siamo diventati volgari, banali, vuoti. E l’opera proprio questo esprime: il baratro in cui ci hanno, e ci siamo, cacciati. L’incapacità di rimodularci,uscire dal guado melmso, per ritrovare la dignitàdei padri, compromessa, anche lontani dalle origini, che urlano nel sangue in una terra dove la ‘ndrangheta proprio sul vincolo di sangue si regge, vive, prospera con strafottenza.
Così due fratelli, in fuga dal passato e dal destino, vagano per l’Europa (location fra Amsterdam, Milano e, ovvio, la Calabria più aspra e misteriosa: Africo, sull’Aspromonte) senza mai riuscire a distaccarsi culturalmente dai topoi culturali di estrazione, succhiati col latte materno, smettendoli come una camicia sporca:la criminalità organizzata che, “occhiuta” (come diceva Giovanni Falcone), vede e sa tutto. Il terzo resta dov’è nato rifugiandosi nell’abbraccio della natura che dà sollievo.
La ‘ndrangheta ha tracimato prendendosi gli spazi vitali lasciati liberi dallo Stato - molti suoiuomini sono compromessi, collusi - fino asostituirlo, e succhiando in tal modo la linfa vitale dell’uomo, della terra, del futuro. E’l’amara, tragica realtà.
L’opera di Munzi (la prima delle tre italiane in concorso, candidata al Leone d’oro, accolta bene da stampa e pubblico che, detto per inciso, non è molto: al Festival di Roma le sale erano più piene: è il declino, bellezza!) pecca, forse, come grammatica narrativa, di eccessiva didascalicitàsino a sfiorare il naïf. Però complessivamente il castello regge.
Bellissima la fotografia: la natura assume valore maieutico, quasi panteistico. “Inseguivo – osserva Munzi - una dimensione caravaggesca:volevo che si sentisse la forza della natura, in contrasto con la modernità di Milano…”). “Anime nere” si inserisce in un filone molto attuale, che il pluri-Oscar Dante Ferretti chiama neo-neorealismo. E mostra un Sud vitale, vivo, pieno di energia, in lotta con se stesso, che vorrebbe proiettarsi con decisione nel III Millennio, ma non sa uscire dalla palude del XIX secolo e le sue aspre eredità.
Ritrovare la semantica interrotta, dopo decenni di condizionamenti culturali, subcultura e rubbish dominante, espropri identitari,omologazioni e contraddizioni, disvalori, non è facile: ma è la mission che la famiglia calabrese,anche inconsciamente, e con essa i meridionali, si sono dati. La rivoluzione è cominciata, nuovi protagonisti (il figlio che mette in discussione lo status quo) hanno fatto irruzione sulla scena,portatrici di nuove sensibilità, percezioni, valori, culture non più subalterne. E’ un Sud nuovo, diverso, fuoruscito dal fatalismo e dal servilismo, che non delega più, padrone del proprio destino, che intende giocarsi in proprio. Consapevole che ormai non ci sono più opzioni, né alibi, per nessuno. I primi a saperlo, a essere sinceri, siamo proprio noi.
