'Italy in a Day', l’umanità da Quarto Stato

Dal nostro inviato Francesco Greco. VENEZIA – Soffre, ma con dignità. Stordita dall’annuncite, coltiva i suoi sogni, non li abortisce. Nutre la speranza che la “nuttata” prima o poi passerà. Gode dei piccoli desideri soddisfatti, le sudate conquiste quotidiane, delle quisquilie direbbe Totò. E’ l’Italia ferita ma non vinta, incazzata ma non rassegnata, fortemente critica ma non fatalista, smarrita ma ancora capace di autostima “vista” dal regista napoletano Gabriele Salvatores (Oscar per “Mediterraneo”), che in “Italy in a Day” (Un giorno degli italiani) ha colto il nostro grande popolo genio e sregolatezza nella visione che ha di se stesso al tempo del selfie selvaggio, che alimenta un narcisismo ancora tutto da decodificare.

Il format non è originale: un regista britannico, Tim Burton, l’ha usato prima. Ma sorprende la dimensione delle risposte, come se ci fosse une estremo, impellente bisogno di comunicare: una pioggia di ben 44.197 video inviati da filmaker della domenica: ma la qualità delle immagini è buona: gli italiani padroneggiano bene le nuove tecnologie. In tutto 2.200 ore (“na cifra” direbbero a Trastevere). Da questa montagna di materiale il regista ha estratto, lavorando per un anno, un docu-film di un’ora e mezzo, montando i frammenti di un autoritratto involontario degli italiani, un diario trasversale (dalla ragazzina pigra con gatto all’anziano svagato), un sottinteso outing di massa di filosofi da strapazzo, chirurghi, pensionati illividiti dalla fame, operai, ecc.

Nell’opera, presentata fuori concorso e accolta molto bene alla 71ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia, traspira il grande cinema neorealista ibridato all’input estetico e sociologico di quei documentari-candid camera anni Settanta di cui detiene il copyright un troppo dimenticato Nanni Loy (ricordate quando al bar inzuppava il cornetto nel cappuccino altrui?).

Salvatores assembla di tutto, strutturando il suo documentario secondo le scansioni della giornata italiana, la quotidianità minimalista (sveglia, colazione nel tinello Ikea, scuola o lavoro, ritorno fra le quattro mura, la cena e infine la notte) scandita al tempo della crisi infinita in cui siamo avvolti con sgomento. Il tratto realista vale più di mille dotti trattati sociologici, anche perché privo di accademia e di onanismo intellettuale. Tutto è live, crudo assai, persino spaventoso, ma anche squisitamente antropologico, didascalico, diremmo quasi intravisto con la lente spessa dell’entomologo.

Vengono alla mente quei documentari anglosassoni che beccano le giraffe a corteggiarsi e poi ad accoppiarsi. E anche in “Italy in a Day” c’è una coppia narcisista che lo fa per 24 ore (come i ricci, o i leoni, si dice…), quelle del giorno indicato dal regista: il 26 ottobre 2013. Lo spaccato analitico che ne vien fuori sancisce fra l’altro anche la fuoruscita dal luogo comune dei santi, navigatori e poeti, ma anche della pizza, mandolino e ‘o sole mio.

Siamo nell’epoca del pixel e del selfie, per cui, tablet o cellulare, siamo tutti autori. E’ il cinema dal basso, underground, contaminato: una ricerca in progress di qualcosa che sfugge, il senso dello stare al mondo e delle parole usate che scatta quando si accende il led rosso e la parolina “rec”.

Dovrebbe essere proiettato in tutte le scuole della Repubblica cogliendone il sostrato pedagogico; magari anche visto dalla classe politica che interpretata da quest’Italia pensante e sudata pare composta da alieni lontani anni-luce dal sottosuolo dostoevskijano, dalla marginalità, non tanto geografica quanto esistenziale di milioni di persone che pure conservano il rispetto per se stessi e intrecciano ragnatele di futuro, per se stessi e i propri cari. E invece sarà rimosso con fastidio da politici e intellettuali, casta di bramini distanti da un popolo arrabbiato ma non disperato, che pretendono di parlare in sua vece. Sarà distribuito il 23 settembre, ma quante copie? E dicono anche di un passaggio tv: nel cuore della notte?

Particolare curioso sottolineato in conferenza-stampa da Salvatores (oltre alla cifra sentimentale che ha voluto dare al lavoro): nessun contributo amatoriale è giunto dalle classi alte, non da chi se ne sta al largo delle coste sullo yacht da 25 metri, evadendo le tasse e portando i soldi lontano, ma della borghesia italiana impegnata a consumare, arroccata nel suo status e i suoi feticci. Ma c’è anche una borghesia illuminata responsabilizzata sui destini di quello che si intravede come un Quarto Stato aggiornato al XXI secolo. Ma su questo elemento potrebbero riflettere i sociologi, oltre che gli psicanalisti. Col suo docu-film Salvatores ha aperto il solco. E va bene così.

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