Pavia: "I resti di Bisanzio", del leccese Schirinzi

PAVIA - Il regista salentino (Acquarica del Capo) Carlo Michele Schirinzi presenta "Apocrifi",
a cura di Roberto Lacarbonara, mostra personale nell'ambito della rassegna "Biforcature" a cura di Filippo Tozzi e "I resto di Bisanzio", prodotto da Kama soc. coop. a.r.l. / Gianluca Arcopinto, 2014, 80’. A Palazzo del Broletto - Pavia, 7/14 dicembre 2014, ore10:00 - 21:0 (ingresso gratuito), vernissage 10 dicembre ore 18:00, proiezione "I resti di Bisanzio" 10 dicembre ore 21:00. Scrive Roberto Lacarbonara: “È questo dunque l’inferno? Non lo avrei mai creduto. Vi ricordate? Lo zolfo, il rogo la graticola… buffonate! Nessun bisogno di graticole. L’inferno sono gli altri.”
(Jean-Paul Sartre, Porta chiusa, 1947). Audacia, audacia di combattere. Spremitura di carne come molitura di grani. Fiera battaglia e tempesta adriatica sì, ma sul divano, in televisione, in pantofole. Insomma, un’epica a piccole dosi, un’epica da coupon. Eccoli i tableaux raclé di Carlo Michele Schirinzi, intonaci e mosaici grattati via dalla storia e consegnati alla blasfemia del quotidiano, alla passione vivente di profughi e puttane, ad una scrittura apocrifa scolpita sull’acqua, esiliata, svanita, in silenzio. Immerso nella matrice dell’immaginario bizantino, l’artista e regista pugliese ricompone la storia di una doppia deposizione collettiva, sociale e culturale, che polverizza territori ed nature, individui e relazioni. L’intero impianto espressivo di Schirinzi fruga insolente tra reliquia e liquame, tra la sacralità di una bellezza eternamente mossa dalla spiritualità e dall’arte e la costitutiva abiezione dell’individuo. Ne risulta un lavorìo perennemente svolto entro la “nostalgia della totalità” nella quale lo spirituale e il carnale si misurano ed usurano in una elastica distanza. Attraverso la tensione etica della narrazione, pur avvolta tra le fasce di una dizione ironica e iperbolica, la produzione fotografica e cinematografica di Schirinzi rievoca i saperi della dissertazione hegeliana e sartriana, specie nella riscrittura di Kojève e di Queneau, sui temi della dialettica Servo-Padrone. L’uomo non è mai semplicemente uomo: “sempre e necessariamente egli è o Signore o Servo. Se la realtà umana non può generarsi se non come realtà sociale, la società intera non è umana se non a condizione di implicare un elemento di Signoria ed uno di Schiavitù, esistenze ‘autonome’ ed esistenze ‘dipendenti’ ”(2). Quella che l’artista ci consegna è una collezione di straordinari e lucidi componimenti realizzati a partire dalla sua peculiare “retorica dei resti”, degli scarti, dei frammenti, di un mosaico sparigliato le cui tessere sono gli altri, gli anonimi e i perdenti, i migranti spiaggiati come otarie sulle coste salentine, i falliti della civiltà o i “suicidati della società” come nella sentenza di Antonin Artaud – stipite del pensiero schirinziano – su Van Gogh. Di questi autori, il regista morde la vita, con accanimento e pulsione, con erotismo e lamento. “È nuda natura e pura visione, così come essa si rivela quando la si sa avvicinare abbastanza da vicino. Una simile prossimità confina con la follia, quella però che strappa all’altra follia, alla follia di stagnazione, alla stabilizzazione dell’inerte, quando il senso diventa tema soggettivato, introiettato e oggettivato, e il soggetto una tomba”(3). Anche tra le visioni di Schirinzi s’avverte un soverchiare di tombe, un trafugare gli incubi, subire l’oscuro fascino della consunzione del corpo e della storia. La ricorrenza del “graffio” sin dagli esordi pittorici e nelle opere col negativo fotografico (“Iconoclastie su (al) negativo”), ha generato nel tempo processi dapprima meccanici e visivi (sfasature e sfocature dei soggetti, deformazioni formali ma anche semantiche - come nel cortometraggio del 2006 “Palpebra su pietra”, abbagliante omaggio alla generosità plastica e luministica del barocco leccese) e in seguito ha avviato nuove costruzioni emotive e tensive in cui l’intero tessuto strutturale del film si deforma, dilatato nei tempi e irritato nell’intreccio, fino a quel fuorifuoco della coscienza che è “I resti di Bisanzio” (2014), storia di naufragi psicologici e collettivi al centro del suo primo lungometraggio.
Calato nello stesso sistema-mondo dei pittori surrealisti e di quei visionaristi fiamminghi come Böcklin, Brueghel il Vecchio, Füssli e Bosch che furono massimi interpreti di una corporeità aberrante e grottesca, Schirinzi ribalta inoltre i piani etici e visuali del profondo e dell’osceno: la realtà si attesta nel suo stesso negativo, nella perdita di compattezza della logica. L’autore insiste sull’inconsistenza della verità e del pensiero canonico. E tutto risale immediatamente la superficie attraverso un’operazione stoica e allegorica: l’illimitato risale. Il divenire altro - e l’alterazione del mondo che esso implica - non è più un fondo che brontola, ma riemerge imponendosi e resiste; ciò che è normalmente sepolto e invisibile è adesso il più manifesto. L’apocrifo spaventa, esso adesso parla. L’enigma si fa visibile, il puro enigma del fiore torturato(4). (2) Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, 1931. (3) Jacques Derrida, Antonin Artaud. Forsennare il soggettile, 1986. (4) Ibidem.

"I resti di Bisanzio", di Carlo Michele Schirinzi.

C non ha stimoli dal quotidiano e condivide questo malessere con due amici, S, bandista del paese, ed R, ex-benzinaio che vive apaticamente tra le mura della sua spoglia dimora. Da quest’ultimo, C preleva scolature di carburante per realizzare il suo sogno: bruciare il presente che non gli appartiene. C ha continue visioni incendiarie, effimere ed impotenti perché soltanto immaginate dalla sua mente ed affrescate nei suoi occhi. Intanto tre “turisti” approdati sulle rive adriatiche si perdono nel Capo di Leuca tra luoghi abbandonati dalla Storia, ruderi architettonici e macerie sociali mentre un terrorista culturale, chiuso in una vecchia torre costiera, imbastisce parole che forse nessuno leggerà.

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