Bam Fest: bilancio positivo, già si pensa a seconda edizione

BARI - Abbiamo visto e sentito grande musica all’Auditorium dello Showville di Bari lo scorso fine settimana. Il BAMfestival ha permesso al pubblico del capoluogo pugliese di assistere alla performance di artisti che invitati espressamente da New York, si sono espressi sull’unico piano a loro più consono, quello dell’emotività e dell’istintiva capacità di coinvolgere la platea. Un interessante tavola rotonda moderata dal direttore artistico Nicola Gaeta a cui hanno partecipato Nicholas Payton, Gary Bartz e Orrin Evans e i critici musicali Fabrizio Versienti e Ugo Sbisà, si è tenuta all’Officina degli Esordi e ha permesso di chiarire una questione che rischiava di confondere le acque e ritorcersi come un boomerang sulla buona riuscita del festival stesso.

BAM è una questione che attiene strettamente all’universo degli africani d’America ed è qualcosa che ha a che fare con una rivendicazione socio-economica che esiste ormai da parecchio tempo. Non c’è razzismo in quell’acronimo ma semplicemente l’esigenza di rimarcare la centralità dell’afroamericano all’interno di un universo sonoro composito che ha ormai più di un secolo di storia. Il vero mattatore del festival è stato Johnny O’Neal, pianista e vocalist di Detroit, 59 anni, un entertainer di gran classe che in due momenti diversi – il primo giorno in solo e il secondo in quartetto con Gary Bartz al sax alto – ha dato prova di conoscere a menadito il songbook americano e di saperci giocare su con grande maestria.

Le sue esibizioni hanno molto divertito la platea e incuriosito addetti ai lavori che non ne avevano mai sentito parlare. In realtà O’Neal ha suonato con la storia – tra tutti i Jazz Messengers di Art Blakey – e a New York è un’icona: ne ha parlato, segnalandolo, recentemente il New York Times. Un altro grande momento è stato quello del trio di Nicholas Payton in chiusura: il trombettista di New Orleans, il primo ad aver usato il termine BAM e ad averne fatto un vessillo, si è prodotto in un raffinato pamphlet sonoro pieno di colte citazioni, una specie di rilettura, anche se sintetica, della storia della musica afroamericana.

Payton, per l’occasione anche tastierista, ha dimostrato che la sua musica non è la fuffa di cui molti vanno parlando ma un modo moderno di mescolare le carte che coinvolge tutti i suoni che hanno reso oggi la black music multifattoriale e interessante. “L’idea -dice Nicola Gaeta - è stata quella di smuovere le acque del conformismo che caratterizza la gran parte dei festival musicali in Italia, non solo quelli di jazz. Non so se ci siamo riusciti ma, a parte le polemiche sorte attorno all’utilizzo dell’acronimo BAM per indicare il nostro festival, mi sembra di osservare che un piccolo passo in avanti in quella direzione sia stato fatto”.

Insomma, un bilancio più che positivo per una kermesse che, in virtù del fatto di rappresentare il primo esperimento almeno in Europa, si propone l’obiettivo di diventare un appuntamento fisso e annuale e che abbia la capacità di coinvolgere non solo il pubblico di Bari ma di tutta la nazione.