Gismondi, la solitudine dei numeri primi
di Francesco Greco - Maestro. Di giornalismo. E di vita. Fondò gruppi editoriali (Sigma), testate giornalistiche (“Olimpico”, “Sera”, “Puglia”, “Lucania”, “Abruzzo”, “Calabria”, ecc.), magazine (“Pielle”, “lo Sport”, “Biancazzurro”, “Romanista”, ecc.), canali tv (RtgPuglia).
Oltre a una scuola di giornalismo peripatetica, che in 50 anni ha dato alla professione centinaia di firme. Confidava: “Qualche volta ho fatto l'errore di mettere in mano la penna a chi la meritava da tutt'altra parte...”.
Eppure oggi, 13 aprile 2015, terzo anniversario della morte prematura di Mario Gismondi – da ex giovane, pareva avviato a una terza età prolifica, da Grande Vecchio - nessuno lo ricorderà. L'oblio è il destino dei grandi: la solitudine dei numeri primi.
Recita un antico proverbio del Sud contadino, il migliore: “L'ingratitudine umana è più grande della misericordia di Dio”. Infatti.
Era sano come un pesce. Dopo i 50 niente più fumo, moderazione a tavola, cyclette. Andare a salutarlo ogni tanto in redazione (allo stabilimento dove troneggiava una vecchia linotype e di cui andava orgoglioso, zona industriale di Bari, fra l'Aci e la Piscina dei Preti: chissà che fine ha fatto Nerone?), era uno spettacolo che dava ogni volta emozioni diverse: la lucidità delle sue analisi sulle cose editoriali italiane sorprendente. “La trovo dimagrito...”, celiavo. “Non riesco proprio a farmi dare del tu da te...”, ridacchiava. Sapeva tutto dei colleghi che erano stati svezzati nella sua “bottega”. “E' un aggiornamento continuo...”, sorrideva ammiccando al pc: aveva superato le difficoltà iniziali nell'approccio alle nuove tecnologie, lui che aveva cominciato col piombo e gli strilloni.
Ma sapeva anche il giornalismo è sempre qualcosa in progress e rinnovava di continuo il suo stile. Ci facevamo due risate su chi ancora si attardava sui galletti, la barba al palo, i satanelli, ecc.
Mi raccontava di Scalfari a piazza Indipendenza quando diresse il “Corriere dello sport”, di Pertini, di Moro, di Lisa Gastoni. Poi rifiutò “il Giorno”, all'epoca testata di prestigio, una delle più diffuse. Ma non era pentito, o non dava a vederlo.
Lo fece soffrire il taglio dei contributi alla legge sull'editoria di uno dei governi di Berlusconi, All'italiana, ovvio: Robin Hood all'incontrario. Le piccole realtà editoriali radicate nel territorio, “a zappare” diceva, soffrirono (fra cui “Puglia” e “Lucania”), mentre i grandi gruppi, incluso quello dell'ex Cavaliere (coi suoi house-organ) ebbero più risorse.
Non ho mai saputo come cominciò la crisi del gruppo. Di certo so solo quel che mi dissero: il ruolo di Equitalia, forte con i deboli e debole con i forti. La fuga di un uomo politico in redazione noto come “pupone” che per un anno si fece inseguire senza mai farsi trovare. Chiese aiuto, ma a Bari tutti si negarono: è l'etica che ci siamo dati al tempo di Anemone e di er Cecato. Il direttore fu lasciato solo. Non se lo aspettava. Ne soffrì. Si ammalò.
Con Gismondi si chiuse un'epoca, quella del giornalismo romantico: la generazione dei Montanelli, i Biagi, i Bocca, Igor Man, Ettore Mo, la Cederna, la Fallaci e qualcun altro/a. Oggi il giornalismo italico è quasi tutto embedded: burocrati, veline, sociologia, disonestà intellettuale, uffici-stampa, ragazze in boccio che raccomandate dal politico o dal cardinale (“uno non basta, ce ne vogliono due!”, ironizza Gianni Bisiach), leggono l'Ansa. E le notizie? Bisogna trovarle sui giornali stranieri...
Oltre a una scuola di giornalismo peripatetica, che in 50 anni ha dato alla professione centinaia di firme. Confidava: “Qualche volta ho fatto l'errore di mettere in mano la penna a chi la meritava da tutt'altra parte...”.
Eppure oggi, 13 aprile 2015, terzo anniversario della morte prematura di Mario Gismondi – da ex giovane, pareva avviato a una terza età prolifica, da Grande Vecchio - nessuno lo ricorderà. L'oblio è il destino dei grandi: la solitudine dei numeri primi.
Recita un antico proverbio del Sud contadino, il migliore: “L'ingratitudine umana è più grande della misericordia di Dio”. Infatti.
Era sano come un pesce. Dopo i 50 niente più fumo, moderazione a tavola, cyclette. Andare a salutarlo ogni tanto in redazione (allo stabilimento dove troneggiava una vecchia linotype e di cui andava orgoglioso, zona industriale di Bari, fra l'Aci e la Piscina dei Preti: chissà che fine ha fatto Nerone?), era uno spettacolo che dava ogni volta emozioni diverse: la lucidità delle sue analisi sulle cose editoriali italiane sorprendente. “La trovo dimagrito...”, celiavo. “Non riesco proprio a farmi dare del tu da te...”, ridacchiava. Sapeva tutto dei colleghi che erano stati svezzati nella sua “bottega”. “E' un aggiornamento continuo...”, sorrideva ammiccando al pc: aveva superato le difficoltà iniziali nell'approccio alle nuove tecnologie, lui che aveva cominciato col piombo e gli strilloni.
Ma sapeva anche il giornalismo è sempre qualcosa in progress e rinnovava di continuo il suo stile. Ci facevamo due risate su chi ancora si attardava sui galletti, la barba al palo, i satanelli, ecc.
Mi raccontava di Scalfari a piazza Indipendenza quando diresse il “Corriere dello sport”, di Pertini, di Moro, di Lisa Gastoni. Poi rifiutò “il Giorno”, all'epoca testata di prestigio, una delle più diffuse. Ma non era pentito, o non dava a vederlo.
Lo fece soffrire il taglio dei contributi alla legge sull'editoria di uno dei governi di Berlusconi, All'italiana, ovvio: Robin Hood all'incontrario. Le piccole realtà editoriali radicate nel territorio, “a zappare” diceva, soffrirono (fra cui “Puglia” e “Lucania”), mentre i grandi gruppi, incluso quello dell'ex Cavaliere (coi suoi house-organ) ebbero più risorse.
Non ho mai saputo come cominciò la crisi del gruppo. Di certo so solo quel che mi dissero: il ruolo di Equitalia, forte con i deboli e debole con i forti. La fuga di un uomo politico in redazione noto come “pupone” che per un anno si fece inseguire senza mai farsi trovare. Chiese aiuto, ma a Bari tutti si negarono: è l'etica che ci siamo dati al tempo di Anemone e di er Cecato. Il direttore fu lasciato solo. Non se lo aspettava. Ne soffrì. Si ammalò.
Con Gismondi si chiuse un'epoca, quella del giornalismo romantico: la generazione dei Montanelli, i Biagi, i Bocca, Igor Man, Ettore Mo, la Cederna, la Fallaci e qualcun altro/a. Oggi il giornalismo italico è quasi tutto embedded: burocrati, veline, sociologia, disonestà intellettuale, uffici-stampa, ragazze in boccio che raccomandate dal politico o dal cardinale (“uno non basta, ce ne vogliono due!”, ironizza Gianni Bisiach), leggono l'Ansa. E le notizie? Bisogna trovarle sui giornali stranieri...
