Di Matteo, la mafia al tempo del coltan

di Francesco Greco - La mafia al tempo del coltan. Come serpe a primavera che muta la pelle, sorpresa in un momento storico di profonda mutazione antropologica, in cerca di un nuovo dna. Sfaccettata, polisemica, soft: ora vuol farsi “democratica”, mostrare al mondo “la faccia pulita”.Voli pindarici.

Messo via l'armamentario old 900, todomodo e giorni della civetta, fichidindia e sinfonie, lupara e tritolo, continua a “tragediare” (Riina) e si fa percepire con un'altra koinè, modulata come un fiume tranquillo ma pervasivo nel sociale, le istituzioni, la politica, l'impresa, la finanza: come una spa piramidale, un private equity da Re Mida, un fondo d'investimento dai profitti sicuri.

Mafia 2.0, 3D, dunque. Ansia di modernità, un'altra etica, una filosofia per il III millennio: MafiaLeaks. “Il vero volto l'ho intravisto ventanni fa...“ l'incipit. Un selfie implacabile, escatologico, maieutico del pm siciliano Nino Di Matteo in “Collusi” (Perché i politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia), Bur Rizzoli, Milano 2015 (collana Futuro Passato), pp. 188, euro 16,50.

Vita blindata, intelligenza magno-greca, sguardo affilato che coglie l'essenziale netto di fuffa barocca, analisi e sintesi tutt'uno, determinazione sveva, Di Matteo (con Salvo Palazzolo di “Repubblica”) ci dà un saggio strettamente necessario. Sottinteso: il palazzo, la politica, le istituzioni, l'impresa sana, la società civile (“la lotta alla mafia la fanno anche i cittadini”), la sua intellighenzia, certa Chiesa non più neghittosa direbbe Thomas Mann e in definitiva il paese reale e le sue coscienze non potranno girarsi dall'altra parte con “arroganza e sicumera”: sarebbe colposa connivenza.

Le nuove generazioni – il pm le incontra a scuola, parla di “impegno e speranza” ma resta distante dalle sirene della politica - hanno un solido ancoraggio in questi capitoli sapidi, permeati dal pathos civile che fu di Falcone e Borsellino, e prim'ancora di Dalla Chiesa, Chinnici, Livatino, Basile e tanti altri eroi caduti (con le scorte, ragazzi che sapevano d'essere esposti, per un boccon di pane, e condividevano nell'intimo la mission) per affermare un'idea di vita improntata a valori non soggetti a relativismo, trasversali: propri cioè dell'uomo d'ogni tempo.

Con la stagione del sangue (Falcone e Borsellino) e le stragi (Georgofili e dintorni), primi anni Novanta (1992-1993) “il ruolo di Andreotti risulta centrale”, come piovra ferita, Cosa nostra si elevò ancora una volta (lo aveva fatto con l'unità d'Italia e lo sbarco degli Alleati) a soggetto politico, arrivò a “trattare” con lo Stato che, dice Riina mentre parla col boss pugliese Antonio Lorusso nel carcere di Opera (Palazzolo si chiede chi è), dopo aver preso i voti (340mila), aveva mancato la parola data e soprattutto dato l'idea che era la politica a manovrare le cosche: lesa maestà.

La politica che intanto aveva inasprito il 41 bis (i boss a Pianosa) e messo in campo i “Vespri siciliani” riempiendo l'isola di “soldatini” (Riina). L'europarlamentare dc Salvo Lima non riusciva a vedere Andreotti per lagnarsi del maxiprocesso, il primo della storia dopo lustri di assoluzioni (“insufficienza di prove”. La mafia era all'angolo: pentiti e intercettazioni, blitz, catture eccellenti, processi ne stavano disarticolando la cupa ontologia, la semantica devastante, il topos culturale cristallizzato.

Per sopravvivere l'anti-Stato decise il low profile, la “flessibilità”, le “larghe intese”. Di Matteo (“uomo solo... provato, affaticato”, Palazzolo; “denigrato, minacciato”, Bolzoni) parla di “sommersione”, “metodi nuovi” (modello Villabate), “invisibili... insidiosi”, mette in guardia dalla caduta di tensione, specie in uno snodo di crisi in cui Cosa nostra soddisfa il bisogno di lavoro, “organi di stampa e parte dell'establishment politico” li accusa di essersi defilati.

Osserva che c'è sempre “voglia di mafia” (“Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavamo me”, Riina), perché assicura potere, ricchezza, prestigio sociale, carriera. E nel solco tracciato da Ayala il pm esorta a frugare nei coni d'ombra “dove i mafiosi incontrano gli insospettabili”, la peggio gioventù: politici, imprenditori, professionisti, burocrati, amministratori locali, “colletti bianchi” (Mosca ne parlava un secolo fa, Franchetti nel 1877) “l'intellighenzia mafiosa”, inquietanti ossimori spesso percepiti come “anti” (“circolo affollato”, i “professionisti” di Sciascia) e che fanno outing (the show must go on) di principio fumosi, bignamini, talvolta contigui, funzionali, “a tavolino” col Moby Dick sempre goloso di denaro pubblico, che nella terra di Pirandello s'è inabissato per riemergere più forte.

“Lo Stato deve avere la forza di guardare dentro di sè”, ammonisce il pm, nella palude, la terra di mezzo a metà fra la pax mafiosa e le istituzioni perché “Senza i rapporti con il potere, Cosa nostra sarebbe solo una banda di sciacalli” (Riina). In risposta giungono e non da oggi, segnali confusi, che oggettivamente fanno il gioco delle cosche: la legge 45 del 2001 (premier Berlusconi) depotenzia il pentitismo e la successiva riforma di Mastella (con Prodi) che limitò autonomia e indipendenza del pm. Altro input equivoco: non mettere mano alla legge che dopo 10 anni fa decadere il pm dalla Direzione distrettuale antimafia, volatilizzando un kow-how prezioso. Così si crea un clima “irrespirabile”, s'acconcia l'humus di qualsiasi opzione, perché sono “ignorate o dimenticate le ricostruzioni dei giudici”.

Oggi Di Matteo continua a lavorare alle sue inchieste, ma per la burocrazia politica dovrebbe occuparsi di divieti di sosta e ladri di galline. Ora si capisce perchè “Riina vuole Di Matteo morto” (ma “l'uomo dei misteri italiani” odia pure don Ciotti e Berlusconi). E il pm risponde: “Io resto la mio posto”, ma annusa “l'atmosfera vischiosa”, rammenta che “con la mafia non si tratta”, auspica “una svolta culturale” e dice che non è più tempo di chiaroscuri, ambiguità, meline: sarebbero letti come cedimenti, connivenze.

Uscendo dal palazzo di Giustizia di Palermo, su una bancarella di libri, Palazzolo vede “Cose di Cosa nostra”, dove Falcone (con Marcelle Padovani) intuisce la potenza dirompente del patto Stato-mafia: un'ulteriore legittimazione di Cosa nostra. Peccato aver seppellito il tema con fare nervoso. “Nessuno può dirsi assolto”, direbbe De Andrè. Ciò accade proprio mentre il capo dei capi gongola: “Sono diventato un re... Una cosa immensa...”. L'ennesima occasione persa, un segnale capzioso interpretabile come una resa. Mala tempora...

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