Cinema: 'Zona d'ombra', la recensione

di FREDERIC PASCALI — È difficile indagare e mettere sotto la lente d’ingrandimento quello che diamo per scontato come imprescindibile valore assoluto della nostra quotidianità. Peter Landesman ci prova prendendo spunto da una storia vera, quella del neuropatologo Bennet  Omalu, in grado, qualche anno fa, di far salire sul banco degli imputati il football e l’intera Lega professionistica americana: la NFL.
La vicenda, che risale al 2002, venne ben descritta in  un articolo, “Game Brain”, di Jeanne Marie Laskas apparso nel 2009 sulla rivista GQ. Lo stesso che ha ispirato la scrittura del regista americano.

Nigeriano d’origine trasferitosi a Pittsburgh, Bennet Omalu è un neuropatologo molto stimato e molto attento alle regole non scritte dell’integrazione.

Dei suoi natali africani conserva giusto qualche piccola bizzarria, come quella di parlare con i cadaveri poco prima di effettuarne l’autopsia.

Un giorno di settembre del 2002 sul suo lettino da lavoro arriva il corpo senza vita del cinquantenne Mike Webster, ex campione di football da qualche tempo noto alle cronache più per i segni di squilibrio che per la gloria del passato. L’immediata prima impressione dell’analisi del suo cervello lascia Omalu piuttosto perplesso. Pur essendo a conoscenza delle recenti forti emicranie di cui soffriva Webster è altresì convinto che su quella morte violenta ci sia ancora molto da indagare. A sue spese effettua dei sofisticati esami su dei campioni della materia grigia dell’ex campione. I risultati sono sorprendenti e cambiano la sua storia personale e quella della stessa NFL.

Landesman, profittando di un Will Smit, “Bennet Omalu”, sempre più impeccabile, fa centro e sfoglia una scomoda realtà “leggendo” alcuni degli archetipi del mito democratico americano: l’integrazione, il Football,il merito e il “self made man”. Pur non riuscendo a sfuggire alla trappola di qualche ricamo agiografico di troppo, mette bene a fuoco tutti i suoi obiettivi e sviluppa una pellicola d’inchiesta che lascia il segno.

Con una certa eleganza governa bene le ottiche della macchina da presa, aiutato dall’efficace fotografia di Salvatore Totino e dal sapiente dosaggio scenografico curato da David Crank. 

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