OPINIONI. Encefalogramma piatto: in fuga dall'Italia

di FRANCESCO GRECO - 107 mila e rotti, molto rotti, come direbbe Fiengo, italiani, nel 2015 hanno abbandonato l'Italia matrigna. Quelli iscritti all'AIRE. C'è da pensare che altrettanti non sono registrati all'Albo degli Italiani Residenti all'Estero. Com'è da ritenere che siano tutti, o quasi laureati, master, magari dottorato di ricerca. La classe dirigente di domani. Senza la quale un paese è nudo, non è niente, non ha futuro.

Se ne va il meglio di un paese ingrato, che li ha formati con costi sociali salati, e ora regala le loro intelligenze agli altri. Fanno bene a partire: l'Italia non li merita, li considera “minori”, e anche pericolosi, destabilizzanti per lo status quo. A volte li combatte e li costringe a espatriare. Qui morirebbero di fame, spogliati del pane e della dignità, umiliati, condannati al precariato dei call-center, a fare i rider: portare pizze a domicilio a 200 euro al mese. Precari a vita, senza poter progettare un futuro, accendere un mutuo, metter su famiglia: costretti a essere dei neet. Anche perché in questi ultimi anni lo stato sociale si è estinto e occorre pregare i propri déi per non averne mai bisogno.

La “profezia” dei demografi di questi anni, la desertificazione umana e intellettuale, si sta avverando. Anche così l'Italia è un paese “minore”, che declina verso l'estinzione, decade in ogni scomparto dell'attività sociale, economica, umana: si deprezza in tutto e per tutto come sistema-paese.

E avviene nel peggiore dei modi. Quella profezia era riferita al Mezzogiorno italiano, il vecchio Regno delle Due Sicilie desertificato (meno 4 milioni di persone negli ultimi dieci anni), ridotto a un'immensa casa di riposo, devastato da due mafie: quella politica (i “dittatorelli” li chiama Carlo Puca ne “Il Sud muore”, Marsilio 2016) e quelle “tradizionali”.

Ma adesso è dall'Italia tutta che si va via: le regioni da dove si emigra di più sono, insospettatamente, Lombardia e Veneto, dal mitico nord-est delle partite-Iva e dalla capitale morale del belpaese.

Come e perché siamo entrati in un tunnel viscido di marginalità e decadenza, di declino annunciato, di relativismo economico e culturale, di deriva sociale, fattori ancora più gravi perché non legittimati, oscurati dall'insulsa propaganda dei politici? Per molte, complesse ragioni, di varia natura, che cercheremo di esemplificare.

L'Italia è diventato il paese della barbarie del diritto, delle lacerazioni quotidiane, sistemiche, dei diritti negati, apparenti, che esistono solo sulla carta, ma di fatto impraticabili, inaccessibili. Basti ricordare la legge-Fornero del 2012 (governo tecnico di Mario Monti), che retroattivamente ha formattato un diritto maturato (pensione), nel silenzio, o quasi, generale, degli esegeti della Costituzione.

Siamo un paese di lobby e di caste, dove l'ascensore sociale che funzionava un po' fino a qualche decennio fa, consentendo ai figli della working class di studiare e darsi un ruolo dignitoso, s'è inceppato. I ceti-bene, dinanzi alla crisi si sono arroccati e si spartiscono tutto, lavoro per primo: basti vedere chi oggi si dedica al giornalismo: contesse e baronesse e figli dell'alta borghesia. Ai figli dei lavoratori non resta nulla, manco le briciole, la carità, da lavare i piatti, o i call-center. Tutto procede per militanza ideologica, cooptazione: lavorano solo i “garantiti” dal sistema, i “punciuti”.

Il dibattito culturale è falso, retorico, vuota pantomima: viviamo come in un film di Totò, di Franco e Ciccio, o un b-movie.

Lo stato sociale è stato quasi formattato, il darwinismo sociale più selvaggio sociale regna sovrano, la coesione sociale si è prosciugata, la memoria desertificata: viviamo sospesi in un presente alienato e vuoto. Provate a chiedere a un ventenne se sa chi è Fellini e Rossellini o Moravia e Sciascia. I loro film non si trasmettono più, i romanzi non si ristampano. La crisi è anche culturale: si producono film insulsi e banali, si pubblicano romanzi volgari e privi di pathos, squallidi e supponenti. La tv poi è il parametro del vuoto e la bruttezza della modernità: è davvero la “cattiva maestra” teorizzata da Karl Popper, sparge spazzatura, feticismo, subcultura, omologazione (dallo pseudo-giornalismo di Barbara D'Urso al voyerismo del Grande Fratello: siamo un popolo di aspiranti star e imitatori, che si affolla ai talent).

Ma siamo anche un paese morto, dove l'ultima parola la dice il presidente emerito Napolitano, 90 anni, Baudo è tornato alla grande, Costanzo governa tutta la tv imponendo un'etica mediatica desolante e funzionale allo status quo. L'Italia non è più il paese di Dante, Caravaggio, Fellini, Carmelo Bene: non ha fermenti artistici, provocatori di mestiere e vocazione (l'ultimo è stato Dario Fo: 1926-2016), sistematicamente soffocati se politically scorrect.

Un paese dall'encefalogramma piatto, da dove appena si può si scappa allegri e felici, come una liberazione e senza alcun desiderio di tornare, chi non lo fa vivrà col rimpianto per tutta la vita. E chi si fa prendere dalla nostalgia canaglia e dal sentimentalismo e torna se ne pente amaramente; lo aspetta uno scantinato umido e buio a fare ricerca a mille euro al mese.

Si sono fatte leggi e dati incentivi, in questi anni, per far tornare a casa i “cervelli”, ma solo pochissimi hanno abboccato, pentendosene, la maggior parte se ne resta a Berlino o a Londra, e fanno bene. La ricerca ha subìto tagli del 30% e nel 2015, su 4431 progetti presentati, 300 finanziati (appena il 4%).

Un ruolo fondamentale nel declino lo recita la politica autoreferenziale, che sparge il seme marcio della propaganda che stordisce e narcotizza. Fino a sovrapporre la realtà virtuale a quella reale. Parlano, per esempio, di 500mila nuovi posti di lavoro, ci mettono anche quelli che per una settimana lavano i piatti e poi sono di nuovo in strada. Il riformismo reazionario fa il resto: dalla legge sulla buona-scuola al Jobs-Act. I politici lo sanno, ma lo fanno per dominare il popolo con la “comunicazione”, col massimo della disonestà intellettuale. I media conniventi fanno pendant, si prestano alla narrazione ambigua, così diventano decisivi: raccontano una realtà che non c'è, come l'isola di Peter Pan, anche per questo i giornali stanno morendo, ormai perfettamente superflui, omologati al pensiero unico dominante, lontani dalla società, dal cittadino, la sua quotidianità, i sogni e i bisogni, la speranza, il futuro. Come ventriloqui parlano a se stessi.

L'Italia è, in questi anni di rozza propaganda e di pervasiva volgarità, una mera espressione geografica (la profezia del principe di Metternich si è avverata). Film sciatti e qualunquisti, libri inutili imposti come “fenomeni editoriali”, s'è detto, ma anche teatro rimasticato, ricerca zero, nelle arti plastiche (pittura, scultura), non esistiamo: siamo colonizzati dalle mode straniere.
I concorsi pubblici sono una sceneggiata, chi non si presta resta fuori a fare la fame. Il mercato del lavoro accoglie i “garantiti”. La politica corrotta e delegittimata decide tutto, non ha più controllo se non dalla Magistratura. Siamo un paese di cosche, di cenacoli chiusi, di masi autoreferenziali, di “dì che ti mando io”, di “cooptati e furti”, come ebbe a dire dei politici “nominati” Mons. Nunzio Galantino (segretario della CEI) un anno fa. Se non sei sei “nostri” devi solo emigrare.

Questo paese noioso, senz'anima, abitato da vecchi, oggi non offre più niente a nessuno. Anche gli extracomunitari lo bypassano. Il loro sogno è finito, la destinazione inseguita è il Centro e Nordeuropa, dove c'è vita, ci sono più chance, più diritti. L'Italia è defunta. Pax. C'è solo da scappare. Prima lo fai e meglio è. Lontano, extra moenia, c'è pane e soprattutto dignità. Al pane puoi anche rinunciare, ma non alla dignità: sarebbe come offendere i tuoi avi. Blasfemo il solo pensarci.

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