'Gotti - Il Primo Padrino': la recensione

di FREDERIC PASCALI - A volte ci si lascia andare al flusso e al ritmo dei pensieri associandoli, ossessivamente, a una folta selva di parole racchiuse in dialoghi nati per essere monologhi, come quando l’irreale banalità del male viene dipinta con corpi che minacciano armi e con volti prigionieri di ogni possibile stereotipo mafioso.

È questo il cliché che adottano sia il regista Kevin Connelly che gli sceneggiatori Leo Rossi e Lem Dobbs, per una pellicola che appare stentorea nel suo svilupparsi faticosamente tra le rigide strutture predefinite tipiche della narrazione di una crime story e un biopic con la libertà di poter vagare tra le profondità d’espressione della condizione umana.

La vicenda prende avvio dalla fine. John Gotti, l’ex padrino capo dei capi della mafia newyorkese, giace in un carcere di massima sicurezza invecchiato e gravemente malato di cancro. Per l’ultima volta incontra il figlio John Junior che dopo aver, in un primo momento, raccolto la sua eredità criminale è ora deciso a chiudere con il passato e ad accettare il patteggiamento che gli offre la Procura.

I consigli coincidono con i ricordi e la mente del Padrino corre a ritroso fino al giorno in cui offrì i suoi servigi alla famiglia di Carlo Gambino.

Il lavoro diretto da Connelly sceglie la strada della voce narrante, quella dello stesso Gotti, come elemento di suturazione dei differenti punti di svolta della trama. L’espediente, tuttavia, non aggiunge nulla di più a una tensione filmica che persino nelle sequenze più efferate sembra irrimediabilmente imbolsita nei suoi “appelli” e nei suoi luoghi comuni.

Nella stessa interpretazione di John Travolta, “Gotti”, si fa fatica a cogliere quella naturale fluidità di immedesimazione peculiare bagaglio di un attore della sua caratura. Il resto del cast si adegua alle impostazioni dettate dalla sceneggiatura e svolge il suo compito con buona disinvoltura, pur non lesinando il rischio di qualche scivolone nel grottesco. La citazione finale va alla fotografia di Michael Barrett che mette tutti d’accordo plasmando la luce con le tonalità più adeguate e configurandosi come l’elemento più realistico dell’intera pellicola.

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