ESCLUSIVO/ “Auschwitz? C’ero anch’io...”:parla Luciano Sorba, l’ultimo sopravvissuto

DI FRANCESCO GRECO -  “Auschwitz? C’ero anche io, e sono riuscito a tornare a casa dopo due anni d’inferno...”. Parla il “deportato” Luciano Sorba, classe 1925, nato in Sardegna (Suni, Oristano, all’epoca provincia di Nuoro), oggi vive in Puglia (S. Maria di Leuca).

Scappò dal campo di concentramento nazista, si fece oltre duemila km, teneva un diario dove diligentemente annotava tutto, e oggi sarebbe stato una testimonianza live degli orrori della seconda guerra mondiale, la deportazione, quel che accadeva nei campi di sterminio, l’Olocausto: un altro “Se questo è un uomo” (Primo Levi), o “Diario di Anna Frank”.

Andò perduto. Però la memoria è sempre viva, anche se vorrebbe rimuovere ciò che ha visto e vissuto, poichè ricordare è faticoso e doloroso. Nel dopoguerra, Leuca (al pari delle marine di Nardò, Tricase Porto, ecc.) ospitò nel campo-profughi n. 35 “multietnico, multinazionale, multireligioso” una folta comunità ebraica (sino a 4mila persone) che, protetta da un progetto delle Nazioni Unite (l’Agenzia UNRRA), tornò in Israele (o negli USA) dopo aver vissuto mesi tranquilli in empatia con la comunità locale di pescatori (ci fu anche un matrimonio fra un ebreo e una leucana). Da Leuca passò anche David Ben Gurion, uno dei “padri” dello Stato di Israele nato nel 1948 con una deliberazione ONU.

Ringraziamo la Pro-Loco di Leuca (presidente Vincenzo Corina) che da anni porta avanti un lavoro di ricognizione e recupero della memoria personale e collettiva, che rende di dominio pubblico nelle giornate della memoria a gennaio, e che ci fa da tramite con Luciano.

Autunno 1943, circa 800.000 soldati italiani furono catturati e disarmati dai tedeschi. Erano i militari che rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò e che volevano rimanere nell’esercito italiano di Badoglio. Furono rastrellati dalle truppe di Hitler un po’ ovunque dove mantenevano ancora i propri presidi non ancora invasi dall’onda degli alleati con a capo gli Americani: oltre che in Italia, in Jugoslavia, Francia, Albania e Grecia, in Polonia, nel Nordeuropa e nell’URSS.

Di questi, circa 650.000 finirono, dopo interminabili viaggi in nave (non poche affondarono) e nei famigerati vagoni piombati, nei campi di prigionia in Germania, Austria, Europa orientale, presidiate dai tedeschi.

Per il regime nazista i nostri soldati non erano considerati prigionieri di guerra, ma classificati come IMI (“internati militari italiani”), privati delle tutele garantite ai prigionieri dalla Convenzione di Ginevra, sottraendoli alla protezione della Croce Rossa Internazionale e obbligati a lavorare.

È il lavoro per il Terzo Reich l'obiettivo principale della politica tedesca nei confronti degli italiani, un lavoro svolto in condizioni disumane, in spregio delle norme di guerra e umanitarie. La Gestapo blandisce i prigionieri, specie gli ufficiali, sollecitandoli ad aderire alla Repubblica di Salò o addirittura a passare con i nazisti, ma essi rifiutarono subendo torture, sevizie, in qualche caso la morte.

La Repubblica Sociale interviene per trasformare in “lavoratori civili” i prigionieri, ma le loro condizioni non migliorano. “Sfruttati, malati, sottoposti a torture fisiche e psicologiche, non di rado oggetto di veri e propri crimini di guerra, gli italiani dei lager pagano spesso con la vita la loro resistenza. Le vittime dei lager saranno, alla fine della guerra, tra le 40 e le 50.000”, (G. Rochat, Le guerra italiane 1935-1943. Dall'impero d'Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005; C. Sommaruga, No! Anatomia di una resistenza nei lager militari (1943-1945), Roma, ANRP, 2001).

Luciano Sorba fu internato in diversi lager (oltre Aushwitz, Birkenau, Bunzlau, ecc.), ebbe un contatto marginale con gli ebrei di Auschwitz solo nei momenti di attività nei lavori coatti. “Oltre alla vicenda personale del prigioniero – spiega il prof. Antonio Romano, coordinatore dell’intervista che sarà edita in un libro, la parte video è stata curata da Francesco Giaquinto, decisivo il contributo di Piero, il figlio del sopravvissuto – dai frammenti di memoria possiamo avere anche una conoscenza del fenomeno Imi in tutti i suoi efferati, durissimi aspetti. E di riflesso capire meglio la situazione degli Ebrei nei campi di sterminio”.

“Si moriva di fame, eravamo tutti pelle e ossa… anche le pecore morivano di fame perché noi mangiavamo le radici delle erbe di cui loro si nutrivano…”. “Ciò che ci faceva andare avanti era il nostro stare insieme, lo stare uniti… Le cose che ho visto durante il mio internato urtano il sangue, non si può credere, non si può raccontare…”, afferma Filippo Mezzogori di Comacchio (Ferrara).

Rammenta Luciano: “Ad Auschwitz non sono stato nel campo dove erano gli ebrei, ma andavo a lavoro con gli ebrei. Andavamo allo stesso lavoro, poi loro dormivano nel loro campo di Auschwitz, noi nel nostro fuori da Auschwitz”.

Cosa ricorda di quel settembre 1943?
''In caserma gli ufficiali dissero di prepararci che saremmo stati traferiti al Sud. Ma mentre ci incamminavamo per raggiungere la stazione di Piazzale Roma, i civili ci dissero: “Ci sono i tedeschi che vi aspettano”. Ma noi non credevamo; insieme a noi c’erano anche gli ufficiali. Quando siamo arrivati sul piazzale, il contrammiraglio Pannucci ci dice di obbedire agli ordini, di non fare resistenza; ci sono i tedeschi, obbedite. I tedeschi avevano fretta di portarci al campo di concentramento di Mestre, perché in Italia c’erano i partigiani''.

La proposta di collaborazione da parte dei tedeschi ebbe un largo rifiuto, e allora avvenne il reclutamento dei soldati per il lavoro coatto...
''I soldati che non aderivano venivano presi e mandati di forza al lavoro. Passavano in rassegna i nostri soldati già disposti a gruppi. Li guardavano dal capo ai piedi, li scrutavano con occhio intenditore, come fanno i mercanti alla fiera del bestiame...''.

Poi cosa accadde? ''I tedeschi ci hanno presi e portati via. Ma la tragedia più grossa l’abbiamo avuta sul ponte di Mestre. Avevamo due zaini con i vestiari. Abbiamo dovuto mollare tutto, perché ci facevano andare di corsa. Gli zaini erano ammucchiati per terra e alcuni, per sfuggire al controllo tedesco, hanno cercato di nascondersi sotto gli zaini e allora due carri armati tedeschi affiancati sono passati sugli zaini. Vi lascio immaginare quale tragedia. Nel campo di Mestre siamo stati un paio di giorni''.

E poi destinazione Aushwitz? ''Chiusi dentro vagoni bestiame come animali, insaccati come le alici sottosale. Ci hanno dato qualcosa da mangiare, non vi dico cosa, fatto sta che tutti abbiamo avuto grossi problemi di stomaco e di... bagno. Ma il bagno non c’era nel vagone bestiame. Per un lungo tratto siamo stati nella m..., fino a quando con un grosso chiodo e una pietra abbiamo potuto praticare un buco per poter soddisfare i bisogni.

Dal campo di Mestre siamo partiti su un carro bestiame verso la Germania. A un certo punto però avremmo incontrato la divisione Julia rientrata dalla Russia a riposo in Italia, la quale bloccava i treni che passavano con i prigionieri dal Brennero. Allora siamo tornati indietro ed entrati dal Tarvisio. Prima tappa in Austria. Chiusi dentro vagoni bestiame come animali. Per poter sopravvivere abbiamo dovuto buttare via tutti le coperte sporche e inzuppate fino a quando non siamo arrivati ad Auschwitz''.

E lì cos’ha visto? Ci hanno portati in un campo vicino ad Auschwitz, Birkenau (Brzezinka). Ho visto tanti bambini oltre la recinzione, nel campo di Auschwitz. Erano di tutte le età, dagli otto ai tredici anni. Noi eravamo molto distanti; abbiamo visto poco e poi era proibito fare domande, era vietato parlare. Poco prima di arrivare, i nostri ufficiali ci avevano consigliato di non arruolarci, perché ci avrebbero mandati a morire sul fronte russo. Arrivati alla piazza grande, c’era uno che parlava italiano''.

Lavori pesanti? ''Ci hanno trasferiti in un campo di lavoro, non di concentramento, nei pressi di Birkenau, tutti i prigionieri militari italiani e russi venivano portati lì, separati dagli ebrei di Auschwitz. Lì ho lavorato per quattro mesi. Noi, tutti militari destinati al lavoro, eravamo separati da tutti gli altri anche dai militari russi. Ricordo i nomi di alcuni sottufficiali che stavano con noi; maresciallo Porcu, addetto alla cucina; maresciallo Martinelli, spione dei tedeschi; maresciallo Di Gennaro napoletano e un sergente maggiore degli alpini, antitedesco al 1000 X 1000. Ci davano una razione di pane misera che sembrava segatura; un chilo al giorno da dividere per dieci. Una gavetta di brodo con una zolletta di margarina, quanto un’unghia. Ci portavano con i camion nel bosco dove si costruiva una polveriera. Insieme a noi c’erano anche ebrei. Io lavoravo nella costruzione della ferrovia. Un giorno, una volta salito sul camion, ho visto che c’era un ebreo malato che, nonostante fosse grave, era stato portato a lavorare. Durante il viaggio le condizioni si sono aggravate ed è morto; allora i tedeschi l’hanno buttato giù dal camion e hanno cominciato a giocare con il cadavere. I tedeschi erano tremendi''.


Un aneddoto in quel campo? ''In quel periodo fui un po’ graziato e in un’altra circostanza ho rischiato di perdere una gamba. Un giorno il maresciallo Porcu mi disse: Sorba, se vai col camion stasera a prendere la merce per la cucina sicuramente ti buscherai qualcosa. Cercati un amico. Io mi cercai uno che era senza razione a digiuno completo da una settimana per colpa del capo Martinelli. Il fatto: al capo Di Gennaro avevano rubato dallo zaino una razione di pane. Il capo Martinelli aveva riferito ai tedeschi il furto del pane. Allora ci hanno tenuti all’addiaccio a 20 gradi sotto zero per diverse ore, senza cappotto, scalzi, nella speranza che venisse fuori il colpevole. Si fece avanti uno che non c’entrava nulla. “Facciamola finita” disse e così prese un mattone per autopunirsi e uccidersi. Ma siamo riusciti a immobilizzarlo. Erano 20° sotto zero; dovevi pulirti continuamente il naso, perché tutto diventava ghiaccio, anche il respiro.

Quindi, andando a caricare questo camion di viveri dal contadino, indossavo ancora la tuta estiva della marina che per il freddo si era cristallizzata, come una lamiera. Fregando alle ginocchia si era formato un grosso foruncolo. Questo foruncolo non lo facevo mai guarire e mi permetteva di non andare a lavorare. Il dottore, che non era tanto pro Hitler, mi aveva messo un cartellino: in branda fino a guarigione. Allora io non lo facevo guarire mai, levavo il medicamento, lo maltrattavo un po’ per non farlo guarire e il medico mi rifaceva la medicazione. Sono andato da lì all’altro lavoro col ginocchio indenne, ma avevo paura della cancrena. Il maresciallo Porcu, furbacchione, prendeva due dei prigionieri per portare le patate dal mucchio in cucina.

Fui destinato alla costruzione della linea ferroviaria che portava i vagoni dentro il bosco. Quando questi passavano davanti alla rete, cercavano lo zoppo che ero io, e lanciavano patate senza farsi scoprire dalle guardie. Una grazia dal cielo. Avevamo patate in abbondanza. Da lì, terminato il lavoro, ci hanno impacchettati e spediti in un campo d’aviazione di guerra''.

Aslau: e lì che accadde? Ad Aslau nei pressi di Martin Wealdau sono stato quattro mesi. C’era un campo vicino a una pista di atterraggio. Con le baracche stavamo ai margini della pista. Gli aerei rischiavano di arrivarci addosso. Montavamo gli alianti che dovevano trasportare i paracadutisti. Io ero addetto al controllo e collaudo dei comandi dell’aletta e del timone degli alianti. Eravamo in quaranta e formavamo una squadra di meccanici. Eravamo solo italiani; i russi non c’erano. Io con un altro scaricavamo il materiale dal carrello. Ho visto una casa con un grande mucchio vicino. Allora ho pensato: lì ci sono patate. Ho disertato per un po’ col rischio che mi beccassero. Ma non c’era niente. Allora sono tornato indietro e ho incontrato due stranieri, forse croati.

Un giorno il colonnello ha ammonito i soldati di guardia perché avevano fatto lavorare un soldato molto malato, era un marinaio come me; l’hanno messo a spalare e poi è morto. Allora il colonnello ha ordinato che la baracca dei prigionieri fosse costruita e spostata fuori dal campo. Poi ho incontrato i due croati che lavoravano con i contadini. Questi dissero che nel paesino vicino al campo vi era una famiglia di italiani e che ne avrebbero parlato. Fatto sta che questa famiglia ci mandava un sacchetto di patate cotte, lessate. Io, siccome un giorno ero impegnato a lavorare nel campo d’aviazione, mandai Martinelli a prendere le patate. Martinelli poi scrisse una lettera di ringraziamento chiedendo in più un pacchetto speciale per lui. Quella famiglia non ci mandò più nulla. Il contadino che stava nel campo d’aviazione aveva lasciato lì dei maiali ai quali dava da mangiare i rifiuti della mensa. Allora io cercai di racimolare qualcosa da mangiare nella pila dove mangiavano i maiali alla ricerca di qualche pezzetto di patata o qualche osso da spolpare. Poi, non trovando più nulla da racimolare, sono andato in deperimento organico e mi sono ammalato. Il maggiore, accortosi della presenza nel campo di un malato, è andato su tutte le furie dicendo che i malati vanno portati al campo centrale, dove possono essere assistiti da ufficiali italiani prigionieri. Mi sono rifiutato e insieme a sette altri siamo andati in un altro campo. Sempre ad Aslau, Martin Wealdau, un ragazzo, si è sentito male e ha vomitato. Ma la fame era tale che un altro passando ha raccolto e ingoiato. Queste scene lasciano il segno e fanno capire quanta fame e malnutrizione ci fosse in quei posti''.

Altro lager: Gross-Rosen... Dopo il deperimento organico sono andato al campo centrale (probabilmente Gross Rosen), il cui comandante era un sottufficiale degli alpini. C’erano inglesi, americani, olandesi, francesi tutti insieme, mentre in un altro reticolato c’erano italiani separati dai russi e serbi. Io andavo a prendere il rancio nella cucina degli americani i quali ci davano qualcosa, poi scappavo nella mia baracca. Così ho potuto salvare un mio compagno Salvatore Sanna dandogli la mia porzione. Dovevo rientrare passando sotto il reticolato e allora mi son detto: “E’ finita!”. La guardia dall’alto della torretta mi avrebbe scoperto e quindi sparato. Mi è andata bene, mi hanno scoperto e spedito a Gross Hartmannsdorf”.

Qui è stato meglio, se così si può dire? Era al confine con la Germania, c’era una fabbrica di cemento. Lì non mi potevo lamentare, in quanto lavoravo nei campi con i contadini che fornivano il legname che trasportavamo con i trenini. C’erano campi di piselli, patate. Intanto per i tedeschi si avvicinava il ’45 e non c’erano uomini che potessero curare i campi. Allora noi soltanto la domenica andavamo a raccogliere le patate e così siamo riusciti a fare una buona scorta. Siamo alla fine di gennaio del ’45 e arrivavano le prime cannonate dei russi. Ci hanno messi in marcia verso Lipsia, poi Dresda, Berlino, Norimberga, dove mi sono arreso. Eravamo in tre. Ho fatto il contadino e mi hanno mandato a Obendorf''.

Ormai la guerra volgeva al termine... Io e il sig. Rossi siamo stati presso la famiglia Bauer per lavorare nei campi. La famiglia Bauer aveva 3 figli: Rosmary, Linda e Nani che aveva un figlio Heinzeli. Il nonno di Heinzeli reggeva un gasthof (locanda). E il 26 aprile del ’45 arrivano gli americani. Poi siamo rientrati in due, io e il sig. Rossi, perché il terzo compagno si era ammalato. A piedi fino fino a Monaco e poi a Innsbruk. Nel passaggio del Brennero ci hanno spidocchiati. A Verona il primo raduno. Da lì dovevamo dirigerci verso i rispettivi comandi. La marina doveva andare a Napoli passando per Bologna, poi Cagliari e poi a casa''.

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