di ANTONIO CATALDO - La bibliografia di Emilio Bandiera su Joseph Tusiani è praticamente sterminata e in fase di continua crescita: appaiono in continuazione sempre nuovi contributi la cui varietà e vitalità testimoniano di un interesse mai sopito del curatore nei confronti del poeta. Lo scorso anno, per esempio, è stato pubblicato un raffinato volume dal titolo «Lux Vicit, Carmina Latina» con introduzione e traduzione italiana proprio del professore Bandiera.
Da non ignorare che le liriche di Tusiani sono state pubblicate nella carismatica e nota collana «Kleos», edita dalla «Levante editori, Bari», che negli anni passati ha visto proporsi studiosi stimati come Francesco De Martino, che la dirige, Marianne McDonald, Paola Aretini, Yasmin Haskell, Francesca Albini, Philip Hardie, Giovanni Cipriani, Elia Borza, José Vicente Banuls, Maria Evelina Santoro, Carmen Morenilla Talens e tanti altri.
Non è paradossale o artificioso l’aver rivolto l’attenzione alla bibliografia
all’inizio di questo libro. Essa, infatti, ben riflette il rapporto di confidenza, anzi
quasi di simbiosi letteraria, che lega il poeta neolatino e Bandiera.
Questi, filologo
classico, appassionato cultore della produzione letteraria di Tusiani, esperto conoscitore,
assiduo frequentatore ed interprete della figura del poeta, Neo-eboracensis, ma originario
di San Marco in Lamis, ne costituisce - direi - quasi l’interfaccia italiana per la
profonda ammirazione e la lunga consuetudine amicale instauratasi fra i due, testimoniata,
tra l’altro, in questo pregevole volume dalla lirica 65, Carpinianum vale, dove Aemilius (65,1) è per il poeta noster amicus (65,7).
Nella ricca introduzione Bandiera dimostra una spiccata capacità di penetrare con
fedeltà l’originalità e complessità delle direttrici principali della poetica tusianea e fornisce
puntuali ed esaustive indicazioni di lettura e di interpretazione che costituiscono
il necessario supporto per il riconoscimento non solo delle qualità artistiche ma anche
delle dolorose circostanze esterne che influiscono sull’attività poetica e ne modulano
toni e temi, per poi soffermarsi distesamente ed analizzare puntualmente ed acutamente
il ventaglio dei temi e la ricchezza problematica che caratterizzano gli 83 componimenti
di questa raccolta post ictum.
Nella conclusione, infine, il curatore fa il punto, con la consueta maestria, sulle
caratteristiche metriche dei componimenti, evidenziando, una volta di più, la capacitÃ
di Tusiani di padroneggiare i più svariati metri che la prosodia classica gli mette a disposizione.
L’analisi dell’opera, quindi, insieme con la nitida traduzione fedele e attenta alla
complessità stilistica e metrica del poeta, ma mai banale e anche certamente piacevole
a leggersi, è un notevole punto di forza di questo testo. Da essa risulta un’immagine
del poeta che, genuinamente e seriamente impegnato nel suo disagevole confronto con
la malattia, e l’età avanzata non tradisce mai l’aspirazione a tradurre ogni cosa in poesia
e, allora, unisce alla creatività della sua produzione l’intricato sviluppo di una sensibilitÃ
nuova nei confronti delle tematiche ricorrenti che costituiscono lo spirito stesso
della sua poetica: la luce e il suono, la sua terra, il suono della natura, la vita che fugge
e niente resta per sempre.
Punto di partenza imprescindibile è la condizione del corpo che incide in maniera
indelebile sui vissuti psichici del poeta e influenza ogni spunto poetico. Di qui il tema
del baculus, dapprima celebrato, come simbolo del ritorno alla vita nella lirica 1 e il
calembour VICTUS - INVICTUS della lirica 3, segnate entrambe dalla carica adrenalinica
dello scampato pericolo, ma ben presto lo stesso bastone diviene emblema della
vecchiaia (6, 9.10) e, pur con soprassalto di ribellione: I procul hinc, bacule (13,5),
subito contraddetto, però: Sed, bacule, hic remane (13, 7) gradatamente diventa una
sorta di prigione che tiene in ostaggio il poeta, ben felice di abbandonarlo, ormai lignum…
futile et arsum (82,2), per volare al cielo, dismessa la vecchiaia verso la nuova
vita che lo attende in quella luce sempre vagheggiata, che dà il titolo alla raccolta (Lux
vicit, 14,5) e che, da luce terrena, solare, mondana, si va sempre più rarefacendo per
divenire una luce mistica, finalmente raggiunta (82,5), nella quale il poeta si abbandona
serenamente.
Consapevole del fatto che non si possa «sapere senza comprendere e specialmente
senza sentire ed essere appassionato» (A. Gramsci, Quaderni dal carcere, II, a cura di
V. Gerratana, Torino 1975, p. 1505), credo fermamente che questo costituisca un nodo
concettuale di segno forte. La novità della malattia, il progressivo aggravarsi del peso
della vita, fa sorgere in Tusiani il bisogno un po’ aristocratico, un po’ compensatorio
del ritorno alla sua poesia, anche se con uno spirito diverso e con obiettivi mutati, e
una netta prevalenza di temi e sensazioni crepuscolari, un senso della morte e di visione
dell’aldilà , l’angoscia per la menomazione, la solitudine più spirituale che materiale
in cui si ritrova.
A mio parere, infatti, la cifra caratterizzante questa nuova raccolta di liriche è un
misto di nostalgia per ciò che non è più:
oh beata et nunc magis desiderata basia et ora (29, 7.8),
Quondam fulgida erat mea vita, et amabile tempus/ nunc tam difficile et vorax (41,
1.2),
Tot fructus sapidi nostro placuere palato/ sed finiverunt mea gaudia cunctaque
cessant (62, 9.10),
Visio amoris ista/ mecum erit in silente/ supplicio senectae (69, 17-19),
Mens mea sola potest hodie poterit vocare/ cras etiam quod nunc non es, defuncta
iuventa (79, 11.12);
di angoscia, aerumnae…sementis amara (11,3), per la presente vecchiaia che ormai
ha segnato irrimediabilmente il suo corpo:
infirmum corpus pugnat inutiliter…infirmus sum et Naturam provoco vane (33,2.5)
memet adumbro senex (70, 14),
frigidum me fecit amara et aegra/ista senectus…nil in hac aetate hilarem facit me/
nil nisi ardentes radii quibus stat/ ista senectus (74,3.4, 11.12)
Nunc imum nihil est nisi hoc gravamen/ annorum, istud onus silentis in me/ mentis,
cordis inertiumque rerum (75,11-13)
Quod est vetus atque debile/ voco flebile
e che avverte come ineluttabile preludio all’ultimo viaggio nel mistero imperscrutabile
della realtà ultraterrena:
Quomodo mors ad me veniet?...obscurum iter immeritum (7, 1.4)
Quid novae vitae patefiet oclis/ non hodie –cras?(21, 3.4)
sentimenti ai quali si accompagna l’avvilimento più profondo della solitudine:
Sola nunc et maesta manet sine ulla/ pace et ulla spe mea mens remota (29,9.10),
solus at infelix interea maneo (40,4),
al quale vanamente cerca di opporsi, tentando di convincersi che in rebus cunctis/
beata solitudo/ quies et pax est (61,16-18), trovando rifugio nel ricordo di una eterea
presenza femminile che per un po’ ha alleviato la sua condizione solitaria (60,1-
5), o nella orgogliosa rivendicazione della sua identità di poeta in lingua latina (22),
nell’elogio della mente umana (14, 59) o nella percezione del bello legata allo spettacolo
della natura (così nella lirica 5, Festina et omnia cerne), nei due notturni, 16
e 17, che esaltano la quiete della notte, celebrata anche come fautrice di ispirazione
(42), nel saluto al monte Gargano (26), tema che ritorna in Vir montanus (43), nello
stupore di una nevicata (31), o di un tramonto (72), della primavera (80), e persino
della pioggia (81) oppure a visioni appaganti dei luoghi luminosi e sereni dove dimorerà ,
libero dagli affanni e dalle angustie fisiche, la cui descrizione, più che alla
tradizione cristiana, a cui pure fa riferimento implicito riecheggiando i versi notissimi
dell’Ecclesiaste in apertura della lirica Desiderium futile (46) dove notevole è
anche un’atmosfera vagamente ungarettiana nel senso di abbandono che la permea,
fa pensare ai Campi Elisi della tradizione pagana, come nelle liriche Somnium breve
(9), Mecum divide, amice (10), Ista lux (47), Ultima domus (54).
Ecco, al di là dei ricordi dei riti cristiani frequentati negli anni giovanili, Candelarum
dies (27), Dominica in palmis (37), della commossa lirica Post Nativitatem dies
secunda (15) e dell’Haiku Latine condita con le ripetute invocazioni Domine
Pie/…Iesu benigne/…Sancta Maria,/ Mater amata, Mater/ dulcis et alma/…nunc me
assiste (49, 1.13.16-18), Tusiani non indulge in manifestazioni di una fede specifica:
egli vagheggia un mondo di luce, di pace e di amore, una sorta di kepos epicureo (cfr
pag. 15) ben illustrato dalla lirica Somnia somnia (36), ma soprattutto dai versi fuori
testo che leggiamo nella quarta di copertina che, nella loro concisione, illustrano perfettamente la sua disposizione d’animo, le sue speranze, le sue aspirazioni: se il sogno
ha un intimo legame con la vita, la morte si insedia al posto della vita ma non soppianta
i sogni che tutti insieme si ripresenteranno nella nuova vita ultraterrena.
Tali sono le osservazioni che, dopo la lettura delle liriche, ci è venuto da affermare,
senza alcuna finalità censoria e nella piena consapevolezza che, pur densa, partecipata,
di largo respiro e faticosa, l’introduzione di Bandiera non ha l’obbligo di soddisfare
appieno l’attesa di tutti i lettori, né, per sua stessa leale ammissione (cfr pag. 25),
ha l’intendimento di indicare loro l’unica interpretazione dell’ispirazione poetica, precludendo nuove prospettive di approfondimento, proposte con attenzione e accurata
considerazione delle condizioni fisiche e morali del poeta.
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