Storia. Prima (e dopo) la tragedia di Cefalonia


FRANCESCO GRECO - Mio padre Cosimo (1921-2014) è stato uno dei pochissimi superstiti dei massacri di Cefalonia all’indomani dell’8 settembre 1943 (domenica). Era un fante della Divisione “Aqui”, brigata “Garibaldi” (sul foglio matricolare leggo “Brigata d’Assalto Garibaldi-Italia”). Dove alla voce mestiere è scritto: “Minatore”. Lo ripete pure Pati Luceri in “Partigiani e antifascisti in Terra d’Otranto”, Giorgiani Editore, 2012, che evidentemente copia dal fm. Forse papà fu malcapito: non ci sono miniere dov’è nato (Lecce) e viveva (Taranto). In realtà era cavatufi (“zoccature”) nelle cave di carparo, come il padre.

Di quasi 12.000 se ne salvarono pochissimi, ma la dinamica dei fatti, e i ruoli dei protagonisti, da Gandin ad Apollonio, è ancora materia di analisi.

Era figlio di Ippazio Antonio (1893-1950), fante anche lui, partito da Siracusa il 13 marzo 1913 per la Cirenaica e la Tripolitania e nipote di Vito Maria Greco (1889-1916, fratello di Ippazio Antonio) morto sul fronte austriaco nel giugno 1916 in seguito a un attacco austriaco con i gas.

Il soldato del 32° Reggimento Fanteria (“Brigata Siena”) Pasquale Melcarne, di Domenico e Greco Paolina, cugino di Ippazio Antonio, nato a Montesardo il 31 gennaio 1882, è morto in combattimento il 15 aprile 1916, poiché non risultò né fra i caduti né i prigionieri.

 Il cugino di papà Pasqualino Melcarne (la madre era Greco), 3° Reggimento Bersaglieri “Divisione Principe Amedeo”, nato il 12 aprile 1922, morto sul fronte sovietico, di stenti, di freddo, il 27 gennaio 1944, riposa in una tomba comune, con altri 292 di ogni nazionalità, in Kazakistan, a Pacta Aral, campo di prigionia n. 29. Alla patria abbiamo dato, senza avere nulla, ma nulla abbiamo mai chiesto.

Di quell’esperienza giovanile ha raccontato poco e niente. Io non ho mai chiesto della guerra, sapevo che non mi avrebbe detto nulla. Lo sapevo perché anch’io sono pudico e riservato come lui, e non avrei detto nulla neanch’io.

Non ho mai saputo, per esempio, se ha ucciso un uomo: non l’ho mai chiesto, non me l’ha detto. Non voleva ricordare, e se per caso cadeva il discorso, ne era infastidito e parlava d’altro: ricordare è doloroso, chissà che cosa aveva visto.   

Così ho dovuto aspettare 77 anni per sapere (pg. 139) quel che la Wehrmacht fece, in spregio a ogni trattato ed etica, a Cefalonia dopo il 22 settembre ‘43: soldati bruciati, buttati in mare, costretti a scavarsi la fossa, restano a marcire, preda di cani e sciacalli: anche se si erano arresi.

La guerra di Cosimo Greco era cominciata da soldato di leva nell’autunno del 1940 a Barletta (Deposito Misto Truppe Isole Egeo). Eccolo di notte nelle vigne, sotto la luna, con i compagni, a “rubare” i grappoli d’uva (ne è stato sempre goloso) sfuggiti alla vendemmia, in attesa dell’imbarco per le Isole Ionie. Che avvenne il 19 novembre; giunse a Cefalonia l’11 gennaio 1941. Avrebbe compiuto 20 anni 9 giorni dopo.

Ciò che sò - e che affiora nella mente sfogliando “Prima della tragedia” (Militari italiani a Cefalonia e Corfù), di Patrizia Gabrielli, il Mulino, Bologna 2020, pp. 172, euro 19,00, che si regge su ricchissima bibliografia e documenti vivi – lo posso ricostruire da frasi sbriciolate, sparse qua e là durante la sua vita, cadute nei discorsi con parenti e compagni di lavoro nelle cave di tufo.
Lo incuriosivano i preti sposati, aveva imparato alcune parole greche: mamma, pane, vino, ecc. Faceva il nodo alla cravatta agli altri quando la sera andavano in libera uscita. Diceva che alcuni ufficiali spendevano i soldi per comprare la carne al cane e che una volta la carne se la mangiarono loro e alla bestia diedero cipolle. Ricordo qualche accenno alla Casetta Rossa e alla Casa Mussolini. Dal foglio matricolare, avuto dal Distretto Militare di Lecce tramite il capitano della Marina Militare Cosimo Rao (grazie) risultano alcune licenze.

Dopo l’8 settembre un capitano (Apollonio?) li riunì all’ombra di un maestoso ulivo, e disse: “La guerra di Mussolini è finita, ora dobbiamo farne un’altra per cacciare i fascisti e i tedeschi, che adesso sono nostri nemici: dobbiamo fare la lotta partigiana, chi vuol fare il partigiano?”. Cosimo alzò la mano per primo. Non lo sapevano ma era l’inizio della Resistenza (lo dissero in visita a Cefalonia Pertini e Ciampi).

Non so se accadde prima o dopo l’eccidio (15-22 settembre). Papà raccontava che gli Stukas tedeschi bombardarono dalla mattina alla sera: “Durò molti giorni, si sentivano traditi, volevano vendicarsi. Smisero solo quando si saziarono…”. 

Una sera d’inverno, davanti al fuoco, il vecchio camino degli avi dove si era scaldato da piccolo (devastato dalla matrigna), avevamo ospiti e aggiunse che lui illudeva i compagni: “Dai, non vi scoraggiate, ho sentito dire che verranno gli Inglesi a liberarci…”. Un soldato di Castellaneta (Taranto), Paradiso Giovanni (i cui discendenti ho inutilmente cercato), non ce la fece e si impiccò credo in una stalla. L’unica volta che lo vidi turbato, commosso: le parole erano dolorose, ispide. Non scese mai nei dettagli (“tutto non si può raccontare”), come dicono Arnaldo Breveglieri e Nello Forlivesi (pp. 139-140).

Si aggregarono alle Brigate Internazionali. Risalirono verso Janina. L’inverno era duro, non c’era niente da mangiare per giorni, erano provati, disperati, sbandati: una famiglia greca lo nascose nella masseria dove lavorò in cambio di vitto e alloggio (come Ugo Donzelli e Bruno Rasia). Credo abbia avuto una storia con la figlia del contadino (le “topoline” tanto temute dalle ragazze italiane): i parenti hanno spesso alluso alla fidanzata greca, papà non ha mai smentito.

Da lì in Jugoslavia, Belgrado. Ricordava: “Nella ritirata, quando i greci, i sovietici, i polacchi, ecc., trovavano una botte di grappa, si riempivano la borraccia e la indicavano a noi italiani; quando invece la trovavano gli italiani, si riempivano la loro e la rompevano versando a terra la grappa”.

Sull’egoismo si può fondare l’identità nazionale? Altro che “s’agapò”, violino del capitano Corelli e calcetto in riva al “Mediterraneo”. Fiction per la prima serata tv.

In Jugoslavia (sul fm c’è scritto Belgrado) li avevano intercettati i tedeschi e spinti a viva forza sui treni diretti ai campi di sterminio in Polonia. Poi successe che in Ungheria… Abbassava la voce per dire quel che accadde, come se temesse di essere ascoltato. Riuscirono a scappare quando si trovavano già in Ungheria. Non so quando iniziò, quanto durò la sua anabasi (inverno ’44? - estate ’45) e che via fece per tornare in Italia, Taranto. Arrivò il 2 luglio, pesava 40 kg., sua madre Mariangela non lo riconosceva.

A Taranto (masseria “Sant’Andrea”, Buffoluto, dove i Greco vivevano) lo aspettava una piazza piena di gente e la banda musicale: fu accolto con tutti gli onori, come un eroe. Lo era. Siamo una stirpe guerriera. Lui sorrise, era imbarazzato, timido. Ma questo papà non l’ha mai detto, di recente l’ho saputo da zio Domenico, suo fratello (1931).

Mio padre è stato davvero un eroe, era intelligentissimo e creativo, faceva a mente le operazioni a due cifre e scolpiva il legno d’ulivo.

La prima cosa che disse a sua madre fu: “Mamma, in guerra ho bevuto il latte…”. Lei si meravigliò: “Davvero, figlio mio? Tolto il mio il latte non ti è mai piaciuto…”.

Nella sua vita è stato chiamato più volte a raccontare: non è mai andato. Ha rimosso. Ha avuto una vita felice, finché c’è stata mia madre, si erano innamorati da ragazzini, per andare a trovarla alla sua masseria (“La Redenta”, Ginosa) faceva oltre 160 km., andata e ritorno.

Di lui mi resta il gavettino da 500 grammi. La coperta verde oliva con cui si difese dal freddo fra le montagne dell’Epiro e i Balcani. Una banconota da 500 dracme del 1941, la paga settimanale di un soldato a Cefalonia nel 1943. Non so che fine ha fatto l’orologio che papà confidò di aver tolto dal polso di un tedesco, forse un ufficiale, morto. Aveva il quadrante nero. L’ha usato tutta la vita cambiando ogni tanto la fascetta e diceva che non sbagliava di un secondo. Non mi spiegavo alcune foto in cui era in salute, anche troppo: il motivo è a pg. 84, dove si parla di “comodismo… quiete, noia, inerzia, ozio… vita molle, pg. 128”. Sulle foto ha il baffo: alle masserie, un cavallo gli diede un calcio e per nascondere la cicatrice se lo fece crescere.

C’era pure il cappotto grigio, mia madre li teneva come reliquie, a primavera li cacciava al sole; la matrigna li ha gettati (anche quello di nonno Ippazio Antonio e del bisnonno Cosimo, 1846-1916) a nostra insaputa. Le matrigne spesso sono soggetti infidi e perversi.

Ogni tanto gli mostravano un modulo da riempire, o gliene parlavano ex combattenti, per una pensione: non l’ha mai fatto, gli sembrava di rubare. Il suo foglio matricolare è colmo di geroglifici egizi (è scritto con penna nera e rossa) per quanto è stata complicata la sua guerra.

Quando morì (aprile 2004) giunsero tantissimi telegrammi. Ha lasciato qualche scritto dalla Grecia a mia madre Antonietta Guglielmo (Lucugnano, 1919-Montesardo, 1977) conosciuta alle masserie di Taranto e dintorni, inviato però alla cognata (cioè, alla sorella maggiore di mia madre), ma credo che né lui né lei vogliano siano divulgate. Le troverà chi resta, ne farà quel che vorrà. D’altronde, molto è andato perduto, perché Antonietta e Cosimo erano seguaci della scuola di pensiero: “L’hai letto? Non serve più, buttalo al fuoco…”. E se avessero ragione loro?
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