Marta e Marco, “tipi insoliti”, anche troppo...


FRANCESCO GRECO - Lui va in Grecia per trovare un figlio, torna con un compagno: ha scoperto di essere gay. Può succedere a 40 anni, pare che si possa nascondere a sè stessi la propria identità sessuale recitando una parte.

Ci si aspetta la folgorazione omo anche da lei (prof. sempre in cattedra), convinta etero con inclinazione alla trasgressione, ma il marito l’ha lasciata per mettersi con un uomo: anche lui ha taciuto la sua vera natura fingendo di essere quel che non era. Un bel mondo di finzioni, nulla è come appare.

E’ il concept di “Due tipi insoliti” (“Alibi”, artisti liberi e indipendenti e “Punto al Capo”), opera prima per il teatro dello scrittore tarantino (Martina Franca) Mario Desiati. Un testo ispido che Patrizia Miggiano e Walter Prete, guidati dall’abile, sicura mano del regista Gustavo D’Aversa, traducono al massimo della confusione dei ruoli e delle identità sessuali relativizzate che caratterizza questo tempo.

Sulle macerie della famiglia prospera l’ideologia Lgbt, ma a dirlo si è spacciati per nostalgici del Mulino Bianco. Che poi il tutto andrebbe collegato alle culle vuote e agli aborti pro domo propria previa pillola del giorno dopo, spacciando tutto per avanzamento della civiltà, è un discorso che porterebbe lontano.

Anche perché, se tutto è relativizzato, se uno va in giro col pesciolino rosso e dichiara di essere una coppia di fatto, pretende subito una normativa per cornice e se gliela si nega, accompagnandolo magari per un tso, è pronta l’accusa di omofobia.

Limitiamoci allora all’estetica del lavoro, notando che il linguaggio pesante, a tratti irritante, tradisce la modulazione poetica annunciata dal regista nell’introduzione.

Marziale e Pietro l’Aretino parlavano pesante perché c’era da destrutturare il loro mondo che pareva bigotto e moralista (e non lo era).

Qui, ormai, non c’è più nulla da destabilizzare: il politically correct ha inturgidito il nostro io e ci sta facendo correre a rotta di collo verso l’azzeramento della civiltà. Ma l’importante è stare nel trend, sedimentare luoghi comuni.

Così lo spettacolo risulta a tratti noioso e prevedibile nella struttura. Come incubato da un provincialismo che già il teatro d’avanguardia dei Settanta dell’altro secolo (Nanni, Perlini, Vasilicò, lo stesso Carmelo Bene, ecc.) aveva formattato. Idealmente contiguo alla rabbia del ’68, e quindi quella dimensione escatologica aveva un solido retroterra culturale e politico. Che invece qua risulta posticcio, forzato, enfatico: non c’è alcuna Bastiglia da assaltare.

E’ passato mezzo secolo. Oggi siamo immersi nel conformismo dell’anticonformismo. Al servizio del nostro ego bello turgido.

Marco è il più confuso, il ruolo dell’uomo è quello più in crisi. Marta fa la professoressa anche nella vita e nei sentimenti, sempre in cattedra a uniformare il prossimo alla sua visione del mondo ormai senza tabù, o col tabù di non averne. Per cui si capisce perché il marito l’abbia lasciata. Ha reagito cercando consolazione in una compilation di amanti, tipo catena di montaggio. Come marionette che delirano movimenti meccanici, sconnessi. All’invidia del pene è seguita la donna col pene. Metaforico, ovvio.

Quando Marco è licenziato dalla scuola guida dove fa lo ingegnere va in crisi. In una perenne autoanalisi (una delle scansioni del testo), si ricorda che quand’era giovane, in campeggio in Grecia, la notte una ragazza fece il giro delle tende. Per poi mandargli una lettera (le greche non sono leonesse da tastiera, ignorano i social) in cui lo dichiara padre del suo figlioletto (magari ne avrà spedite un bel po’, modalità cc/n), ma lui non se n’è mai curato.

In un impeto di generosità, davanti ai genitori bacchettoni del quarantenne, Marta gli regala un biglietto per la Grecia. Il pubblico pensa che tornerà dalla vacanza nel ruolo di padre: errore, si innamora, di un uomo, perché, si sa, si nasce etero e si muore omo.

Un testo assurdo, paradossale, di un intellettualismo cristallizzato, in cui la “poesia” annunciata dal regista sta nel finale, nel monologo di Marta sui girasoli e i frattali di Fibonacci.

Sublime Patrizia Miggiano (che passa con assoluta padronanza dei mezzi espressivi, dall’Oracolo di Delfi di “Edipo Re” alla casalinga disperata di “Muttura”), Walter Prete gli tiene dietro affannando. Ottima la regia, tutti gran professionisti.

Peccato per la forzatura del testo: forse se le cose fossero andate come il pubblico pensava: Marco trova suo figlio e accetta il ruolo di padre e il marito di Marta sparisce come un tempo uscendo per comprare le classiche sigarette, sarebbe stato può bello. Dopo aver disidratato tutto, un pò di quieta normalità sarebbe aria pura.
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