Leggenda su San Michele e Sammichele di Bari


LIVALCA -
Sammichele è un comune in provincia di Bari di quasi 7000 abitanti, posizionato a 280 metri sul livello del mare, dista una trentina di chilometri dal capoluogo. Da visitare la piccola ma graziosa chiesa medievale della Maddalena che, situata accanto al maestoso castello Caracciolo, fa da battistrada ad un vivace e pregevole centro storico. Se posso dare un consiglio ad un visitatore intelligente: non fermarsi alla vista esterna, ma ‘perlustrare’ l’interno…le piccole ‘cose’ difficilmente deludono.

Mi è tornata alla mente una leggenda che cercherò di esporre nella maniera più schematica e senza ‘fronzoli’. Vi era nella cittadina della ‘zampina’ (al termine della storiella capirete perché l’elemento gastronomico è inerente al racconto) un devoto di San Michele che aveva un difetto che oggi potremmo definire veniale, ma che il buon Dio riteneva non perdonabile. Durante il lavoro che svolgeva in proprio, alla prima difficoltà, bestemmiava e il faticoso orario che praticava giornalmente non lo aiutava. Sfibrato dalle intense giornate, morì all’ età di 54 anni e il buon Dio decise immediatamente che l’inferno fosse il luogo più consono per espiare le imprecazioni. San Michele - non certo perché fosse a corto di devoti - fece presente che quest’uomo lo aveva rispettato sempre e si offrì di ‘espiare’ al posto dello sventurato, pur di farlo approdare in paradiso. Dio diede il suo assenso e dispose che San Michele avrebbe fatto penitenza per tre anni sulla terra. Abbandonato il paradiso il nostro Michele si rese conto che per mangiare doveva pur lavorare e casualmente rivolse la parola ad una gentile fanciulla che era al balcone con alcuni ‘collaboratori domestici’. 

L’uomo, non più santo, chiese alla giovinetta se il padre avesse bisogno di ‘servitori’, la ragazza, cui non era sfuggita la cortesia e la simpatia del nostro, in breve costrinse il padre ad assumerlo. Messo in cucina Michele in breve tempo si rivelò un cuoco provetto, tanto da divenire capo cuoco e il tempo passava. Il suo datore di lavoro era un duca che spesso offriva luculliani banchetti agli amici, che poi, come spesso accade non solo fra i nobili, ricambiavano. Voci di popolo affermavano che il cuoco Michele non solo era bravo, ma anche molto abile ad economizzare. Un giorno i nobili più in vista decisero di organizzare una gara fra i cuochi che dirigevano le loro cucine e misero in palio una borsa di monete da donare al migliore.

Furono tutti pranzi sontuosi e l’ultimo a doversi esibire fu proprio cuoco Michele, il suo padrone, però, era in ansia, perché pur avendo detto a Michele che aveva potere di spesa illimitata, lo vedeva svogliato e poco impegnato nel lavoro. Il pranzo, nonostante una ciarliera e graziosa cameriera avesse confidato che in cucina niente era pronto a mezzogiorno, andò ottimamente e il nostro cuoco vinse nettamente ai punti. La sera stessa del pranzo cuoco Michele distribuì le monete vinte ai poveri e da quel momento nessuno lo rivide più. Il giorno dopo la figlia del proprietario, la medesima che lo che aveva fatto assumere, si recò personalmente nella stanza in cui viveva Michele e, con sua enorme sorpresa, notò che era illuminata in modo non naturale e vi erano fiori ovunque. Non lei ma la cameriera loquace notò sul letto un biglietto che consegnò alla sua padrona: «Sono San Michele, torno in paradiso dopo aver terminato la penitenza per aver salvato dall’inferno un mio devoto». Le osservazioni da fare sono tante: se aveva ancora i pieni poteri da poter preparare un pranzo ‘miracolosamente’ (senza ingredienti, impegno e ore impiegate), che necessità aveva di trovare un lavoro?

Un atto di onestà regalare monete, guadagnate senza merito. Di questa storia - ricordate la ‘zampina’? - resta testimonianza la propensione degli abitanti di Sammichele ad essere perfetti non solo come abili cuochi, ma anche come notevoli estimatori di tutte le prelibatezze in cui la carne regna sovrana.

Per rimanere in tema di santi vi è una frase molto bella dell’imperatore Marco Aurelio (161-180), figlio adottivo di Antonino Pio, che recita: «Ricordatevi per essere santi non è necessario che altri lo sappiano», e poi una attribuita al comico Pino Caruso, ma che io avevo sentito, nella prima parte, a fine anni ’80 da un mio amico sacerdote «La chiesa prima perseguita i suoi figli migliori, poi li fa santi (1 parte). Nasce il sospetto che li perseguita per farli santi»; Simone Weil (1909-1943) «Oggi non è sufficiente essere santo, è necessaria una santità che il mondo presente esige, una santità nuova, anch’essa senza precedenti»; Honoré de Balzac (1799-1850) «La malattia del nostro tempo è la superiorità. Ci sono più santi che nicchie», ma forse dovremmo rivalutare il papa emerito BENEDETTO XVI, quel Joseph Ratzinger di cui la storia di questo millennio dovrà occuparsi in maniera meno superficiale, che sui santi ci regala una realistica definizione «Molti santi sono autentiche stelle nel firmamento della storia». Poi vi è la saggezza popolare, che può apparire irriverente solo a chi è in malaFEDE, che in un proverbio recita «Chi pregò santa SPERA, aspetta ancora il… miracolo».

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