“Pensare come Ulisse”, alla ricerca del mito 2.0

 


FRANCESCO GRECO - Di là dell’Atlantico, college USA stanno destrutturando la didattica scacciando autori classici, come si fa da noi con quota 100. Di qua, università britanniche scoraggiano l’iscrizione alle facoltà umanistiche: lo Stato finanzia gli studi e con la prospettiva dell’insegnamento di quel corso, il debitore spesso trapassa senza saldare il debito. 

Come se si potesse separare cultura scientifica e umanistica: Socrate e Leonardo non coltivavano l’orto?

 Inconsce pulsioni di morte, Thanatos succhia il sangue all’entrata dell’Ade. Noi indoeuropei siamo anni-luce più avanti. Il mito lo respiriamo nell’aria (“Passeggiare lungo via dei Fori Imperiali, nella luce irrevocabile di Roma…”), impregna il nostro dna e identità mediterranei: non abbiamo mai creduto alla leggenda metropolitana delle lingue morte (aberrazione del ‘68) e ci telefoniamo parlando il latino, mentre siamo in partenza per Eleusi. Non saremo così ingenui da segare il ramo dove sediamo da millenni, o scendere dalle spalle dei giganti da dove vediamo lontano. 

Vivremo pure in un mondo liquido (Bauman), ostaggi degli algoritmi decisi alla Silicon Valley, le serie Netflix, i droni di Amazon e le pizze Glovo a domicilio, ma abbiamo abbastanza anticorpi, e autostima, per non affondare nel relativismo, peggio di ogni pandemia, passata e futura. 

Il mito (con i suoi palinsesti) è vivo e lotta insieme a noi, interagisce con la quotidianità: l’”Ars amandi” di Ovidio ci insegna come districarci nelle pene d’amore, il “De bello gallico” a non fidarci e scrivere da soli le nostre vite. 

Cogliamo l’eco della modernità in ciò che si dicono i mercenari greci nell’”Anabasi” (Senofonte), quando Agamennone sacrifica la figlia Ifigenia, c’é attualità in Clitemnestra con l’amante Egisto (quante matrone romane vediamo con l’amico a via Condotti?) e nell’odio della figlia Elettra, che compete con lei sul piano della sensualità, ci dice la saggista barese (1988), sappiamo perché Alcesti sul letto di morte implora il marito Admete a non portare in casa un’altra donna, sarebbe la rovina dei figli.   

Delirante, moderna sciarada: il principe di Itaca ha vinto la guerra, ma gli dèi lo tengono per mare dieci lunghi anni, quasi debba espiare una colpa, per invidia o per un’oscura legge del contrappasso. Nella sua reggia, intanto, i viziosi bivaccano senza freni e l’astuta Penelope (antitesi di Clitemnestra) difende la virtù e s’inventa l’espediente della tela: il giorno tesse, la notte disfa.

 Dioscuro speculare di Odisseo, Enea incarna un curioso ossimoro: abbandona Troia distrutta, la reggia è in fiamme sull’acropoli di Pergamo e si dà una mission: una nuova patria. Da apolide la cerca per mare per sette anni, gli dèi gli negano un nuovo amore (la regina Didone, “Carthago delenda est”), ma alla fine la trova sulle coste del Tirreno. Anabasi sovrapponibili.

Confusi dal 2.0, alla deriva, ci rifugiamo perciò nel mito cercando conforto. Lo dicono anche le classifiche del best-seller: “L’inferno su Roma”, “La canzone di Achille”, “Circe”, ecc. E, dispiegando una vasta bibliografia, lo ripete Bianca Sorrentino in “Pensare come Ulisse” (Che cosa gli antichi possono insegnarci sulla nostra vita), Il Saggiatore, Milano 2021, pp. 232, €. 16 (collana “La Cultura”). 

Conducendoci in viaggio in “un altrove di sogno e magia”, ci fa complici di un fascinoso gioco dialettico di specchi, echi e risonanze, citazioni e sovrapposizioni. Bianca Sorrentino àncora il mito del mondo classico, i suoi infiniti topoi, alcuni dei quali trasfigurati in archetipi, alla complessità della realtà del III Millennio. 

Li ripercorre e li attualizza con l’aiuto degli scrittori che, anche senza volerlo, li hanno riletti e frequentati (spesso reinterpretati: Agamennone non sacrifica la figlia ad Artemide “senza alcuno scrupolo”, e la stessa Ifigenia accetta la sorte per il bene della Grecia, le vele della fotta greca, sapevamo, erano mosce, non spinte da venti contrari): da Vittorini a Borges, da Peter Handke a Colm Toìbìn, Tabucchi a Jelinek.        

 Alla fine ci sentiamo come Prometeo che ruba il fuoco per donarlo ai mortali, Ulisse che non trova la via di Itaca, stordito dalle sirene, sedotto da Circe, Enea che seppellisce il padre in Sicilia, il Minotauro nato dalla libidine confinato nel labirinto disegnato da Dedalo, Arianna abbandonata o dimenticata da Teseo, Edipo scosso dall’hybris che non sa decodificare l’oracolo di Delfi. 

 La conclusione potrebbe essere banale: il mito, quando uomini e dei vivevano insieme (erano antropomorfi), è più ricco e sedimentato di questi tempi desolati e volgari, claustrofobici, desertificati dalla comunicazione, abitato da stupidi e impauriti voyer. Ma se tanti li trovano divertenti, vuol dire che tale percezione è un atteggiamento estetico, soggettivo, minoritario.

Ma noi continueremo a stupirci per Clitemnestra quando il marito torna da Troia con una principessa incinta, il livore che infebbra Elettra (non la sapevamo gay ma moglie di Pilade) e la devozione agli dei del fratello Oreste. 

E a vivere il mito come una potente password per far luce dentro e fuori di noi: due entità che i Greci separarono, il Giano bifronte in cui convivono la trascendenza di Apollo con la trance con cui Dioniso coglie la circolarità della vita, l’esiguo confine con la morte: l’uomo che è dio e dio uomo.

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