Libri: Raffaele Nigro racconta Federico II di Svevia con il 'Il cuoco dell’imperatore'

LIVALCA - Dopo essermi immerso per 4 giorni nelle 750 avvincenti, entusiasmanti, graffianti , ‘pungenti’ pagine del romanzo «Il cuoco dell’imperatore», “La nave di Teseo”, Milano 2021,pp. 752 e 22,00, mi sono concesso una considerazione da ‘brigante’: quel testo poteva averlo scritto solo uno figlio ‘unico’ nato ai piedi del Vulture e precisamente in una località denominata Melfi, che vedeva segnare i propri confini da un fiume chiamato Olivento. L’origine del nome Melfi, secondo lo studioso Mario Cosmai, potrebbe essere da melpa (fiume) nome di origine mediterranea che, con il sostegno del suffisso pa (presso) di chiara origine messapica, ci chiarirebbe l’arcano.

Ora dovrei parlarvi del senatore Giacomo Racioppi (Moliterno 1827- Roma, 1908) e della sua «Storia della Lucania e della Basilicata», ma lo cito solo per stimolare coloro che hanno voglia di approfondire e chiedersi perché nel 2011 è stato inserito tra i “Migliori 150 servitori dello Stato” , in occasione del 150 anniversario dell’Unità d’Italia (…nel tempo andato una giovane insegnante che stimavo - posso affermare ricambiato! - mi chiese se mi sentissi bene dopo un certo comportamento ed io risposi che quando mi comportavo bene, mi sentivo bene; quando mi comportavo male, male. Ci fu un piccolo dibattito se fossi in grado di giudicare il mio comportamento e, scoprii, che la frase da me pronunciata, era attribuita… ad Abraham Lincoln).

Raffaele Nigro per bocca di Guaimaro delle Campane, non solo cuoco di Federico II, ci narra di un uomo complesso ed eclettico; di un politico accorto, avveduto, ma puro ed ingenuo; di uno studioso colto, erudito, sapiente e a volte ‘impreparato’; di un imperatore ambizioso, conquistatore e pur poco propenso alla… violenza ( non penso che alcuni suoi figli e Pier delle Vigne siano in sintonia con questo giudizio!). Un personaggio su cui molto si è scritto (le più curiose e stimolanti leggende ‘fiorite’ sul figlio dell’imperatore Enrico VI e di Costanza d’Altavilla sono state narrate da Saverio La Sorsa ) e su cui molti continueranno a farlo nei secoli a venire.

Per i molti miei lettori, prima amici, che acquisteranno il libro ravvivo alcune notizie utili sul personaggio, anche per facilitarne la lettura. Federico ll nasce a Iesi il 26 dicembre del 1194 dai genitori sopracitati; nel 1197 muore il padre e lui passa sotto la tutela della madre; nel 1198 viene incoronato re di Sicilia e la madre, sentendo prossima la fine - infatti muore pochi mesi dopo nello stesso anno - lo affida al pontefice Innocenzo lll. Nel 1215, a solo 21 anni, viene incoronato in Aquisgrana e l’anno successivo, alla morte del pontefice tutore, inizia il suo personale percorso politico. Dal momento che Nigro inizia il suo romanzo con queste parole:« Nel 1208 o 1209, alla festa di San Giuseppe artigiano, dovetti fuggire dal paese…», ritengo giusto precisare che proprio nel 1209, ad appena 15 anni, lo stupor mundi - precoce in tutto ! - sposa la venticinquenne Costanza d’Aragona, che due anni dopo gli darà il figlio Enrico. Costanza muore nel 1222, mentre Enrico, schieratosi contro il padre, finisce i suoi giorni nel 1242 nella prigione in cui Federico ll lo aveva fatto rinchiudere. Il nostro imperatore nel 1225 sposa la giovanissima, appena 13 anni, Jolanda di Brienne che gli porta in dote il titolo di regina di Gerusalemme. La ragazza tre anni dopo muore, pochi giorni dopo aver partorito il figlio Corrado. Nello stesso 1225 il nostro irrequieto puer Apuliae aveva avuto un figlio di nome Riccardo dalla nobildonna Manna da Castanea. Chiaramente vi sono stati altri figli - Enzo, Margherita, Enrico Carlo, Costanza, Selvaggia, Biancafiore ecc. ecc. di cui non sono in grado di ricostruire l’albero genealogico - e amori, ma mi piace solo sottolineare che Federico riconobbe tutti i figli illegittimi, li fece crescere a corte e distribuì loro incarichi e titoli da bravo pater familias. Forse fu per questo che nel 1224 fondò l’Università di Napoli, in modo da permettere alla sua prole di istruirsi in loco ed evitare il viaggio verso Bologna, università fondata nel 1088 e considerata la prima del mondo occidentale. A Castel Fiorentino, località tra Torremaggiore e San Severo, muore il 13 dicembre 1250 debellato da non precisate febbri intestinali. Secondo alcune fonti fu avvelenato, secondo altre il destino era compiuto. Si racconta che l’imperatore evitava accuratamente di passare da Florentia perché gli era stato predetto che la sua eventuale scomparsa era da mettere in relazione con un fiore ( ecco svelato perché all’inizio ho parlato di leggende ‘fiorite’), per cui quando seppe che si erano accampati a Castel FIOREntino intuì che poteva essere giunta la sua ora.

Nigro fa partire il suo romanzo con la storia di un giovane signore, Guaimaro delle Campane, che è costretto a lasciare la sua Melfi, luogo in cui la famiglia era conosciuta per possedere da più generazioni una fonderia atta alla fusione dei metalli, perché, avendo assistito ad un omicidio, non era in grado di dimostrare la sua innocenza (…qualcuno potrà obiettare che sono passati otto secoli invano, dal momento che anche oggi un innocente si sente colpevole perché “Dat veniam corvis, vexat censura columbas,tradotto la critica-giustizia risparmia i corvi e tormenta le colombe” trova qualche difficoltà a dimostrare la sua onestà). Il nostro Guaimaro opta per una fuga poco onorevole ma salvavita e si arruola, dopo qualche peripezia, alla corte errante di Federico II.

Raffaele Nigro ha un dono innato, che negli anni ha affinato con dedizione ed impegno, che lo rende capace di scrivere di getto sfruttando una fantasia ‘galoppante’ e pur imprigionata in regole matematiche che lo portano sempre a trovare la formula giusta per il suo ‘teorema’: Raf, come lo chiamano gli amici, possiede il ‘demone’ innato della scrittura.

Con illuminata, pragmatica intelligenza Nigro ha diviso il libro in 173 piccoli capitoli, utilissimi per coloro che, avendo letto il testo a puntate, non perderanno la consequenzialità di ciò che si è appreso (…mi piacerebbe credere che si sia ispirato ad una mia idea, escogitata per un libro di Giorgio Saponaro, ma questo evitiamo di raccontarlo…). Mi ha stupito non poco vedere un capitolo dedicato ad Ibn Sina e sarei felice se si fosse rifatto ad una pubblicazione del filosofo Giorgio Scrimieri «Dagli studi su Avicenna Ibn Sina » pubblicato da Levante nel 1973: uno dei tanti testi da cui si è ‘abbeverato’ nel regno di Mario Cavalli. Guaimaro delle Campane, che d’ora in poi indicheremo con il solo nome, si trovava in Sicilia al seguito di Federico e aveva avuto ordine dalla fantesca fidata dell’imperatore, la bella e tosta Mariaspina che lui sposerà in seguito, di preparare un infuso ed una corona di agli per allontanare i vermi che insidiavano la digestione del sovrano. Nell’attesa che il suo intruglio facesse effetto - non è dato sapere quale sarebbe stata la sua sorte in caso negativo dell’esperimento, ma penso che il lettore abbia capito - si era dedicato ai libri custoditi nel luogo in cui era stato ‘parcheggiato’ ed entrò in contatto con il mondo di Ibn Sina e le sue teorie medico-scientifiche. La sua attenzione fu attratta dalla mania del medico, filosofo, matematico, persiano musulmano di raccomandare sempre un continuo lavaggio delle mani (…niente di nuovo…). Alla nascita del figlio di Federico e Costanza, il principino Enrico, il nostro Guimaro rientrò nella sua veste di cuoco eccellente e si distinse per la preparazione di deliziosi brodetti di allodola per far riprendere la sovrana e dolci di mandorle e ricotta per il sovrano in modo che si inebriasse nella dolcezza.

Un capitolo in cui lo scrittore Nigro rivela tutta la sua bravura narrativa è quello dedicato a Gudrun, la tedesca di cui Guimaro si era invaghito e che voleva sposare. Morta da qualche anno Mariaspina, la donna che aveva sposato e che gli aveva donato due figli, il nostro chiese il permesso all’imperatore di interrompere il periodo di vedovanza. Con l’approvazione di Federico e una borsa di soldi provò a convincere la fiera e bella tedesca a seguirlo. Quella volta le cose non andarono secondo previsione, ma in seguito Guimaro ebbe una figlia da Gudrun e portò la moglie a Melfi dai suoi. La mamma non approvò questo breve periodo di vedovanza e Guimaro evitò di riferirle che la sua sposa era stata già maritata. Il romanzo con la sua girandola di storia enfatizzata mi ha fatto cadere tutte le certezze che avevo su Federico ll e, nell’attesa di rileggere il libro in maniera più lenta e pacata, vi riporto una frase che Nigro fa pronunciare all’imperatore e che offende un poco il mio concetto di immacolata amicizia:«Mastro Guaimaro, non c’è da fidarsi manco della propria madre. E da Pietro delle Vigne poi». Ho sempre sospettato che Pier, resosi conto che l’imperatore non pago di tutte le signore a sua disposizione avesse provato ad insidiare anche sua moglie, sia ‘esploso’ con un un tipico «Federico vai a quel paese» firmando la sua condanna a morte. La fatica cui Nigro sottopone il lettore termina con tre capitoli “Gli ultimi giorni di Federico”, “Altro veleno” e “Un carro solo” e con il ritorno a Melfi di Guimaro: «Il cuore mi batteva consapevole che stavo per uscire dalla ferocia della storia e accucciarmi nel ventre di Gudrun e di quel nostro mondo addormentato».

• Nigro ha dedicato il libro a Walter Pedullà “ Amico e maestro che ha attraversato con ironia e acume critico il Novecento Italiano” con affetto ‘lucano’, come di chiara matrice lucana mi sembra questo suo esordio con la casa editrice fondata da Umberto Eco, Elisabetta Sgarbi, Mario Andreose e Eugenio Lio e altri scrittori. Raffaele, che non si è mai fatto condizionare da eventi o ‘successi’, ha pianificato ( programmista Rai agli esordi) con la sua lucida, cosciente, determinata abilità questo suo esordio nella casa editrice nata da una costola di Bompiani. In breve vi espongo il significato di ‘nave di Teseo’.

• Teseo, eroe greco figlio del re di Atene Egeo, è famoso per aver ucciso, con l’aiuto di Arianna, il Minotauro, ma a noi interessa la nave su cui compiva i suoi viaggi di piacere o le spedizioni mitiche.

• La nave su cui esercitava il suo lavoro era di legno pregiato, ma dal momento che navigava senza sosta, era, come tutte le cose, soggetta al deterioramento. Da bravo artigiano del potere Teseo, ormai divenuto re d’Atene e avendo sposato Ippolita, la regina delle Amazzoni da lui sconfitte, era solito far riparare i pezzi della sua imbarcazione, senza mai prenderne una nuova. Col tempo la nave fu completamente rifatta, ma era sempre la sua nave? In conclusione una nave rifatta, modificata nella sostanza, ma non nella forma, ha la stessa identità dell’originale. Nigro forse ci vuol comunicare che lui, anche se ha dovuto sostituire lungo il suo percorso alcuni abiti e ’mezzi’ non al passo del progresso, è sempre lo stesso lucano riservato che ascoltava in silenzio e prendeva appunti da utilizzare alla bisogna. Personalmente ritengo che Raffaele vuol farci intendere che melioribus annis non hanno modificato il suo modus vivendi. Raffaele (Guimaro) Nigro da Melfi è lo stesso Raffaele (Guimaro) Nigro da Melfi-Bari(?).

• Ora, da provetto-profano quale sono, devo dire che sul libro di Nigro da un punto di vista estetico non ho niente da eccepire, anche se mi convince poco perchè non vedo quella confezione artigianale manuale che mi è molto ‘cara’ in tutti i sensi; per carità è un volume che, nonostante le 750 pagine, pesa appena 666 grammi, la copertina è di quelle che non si dimenticano (non chiedetemi il perché), risulta stampato dalla rinomata Grafica Veneta S.p.A in quel di Trebaseleche (PD)…. eppure non avverto quel calore che mi danno i volumi pubblicati nella terra che amava Federico II, dove siamo maestri del cartonato e dei segnalibri in (finta) seta. Chi mi conosce sa che non sono ‘astioso’, ma è dal 1970 che porto avanti una mia personale battaglia chiamata ‘questione meridionale al portatore’(…ritengo non ci voglia un ‘Deus ex machina’ per capire il senso delle mie parole che non saranno ‘Vox populi, vox Dei’, ma sono ‘ Sine ira et studio’… ). Sulla mia scrivania si trova un libro pubblicato da un editore coraggioso pugliese, ma il volume di mille pagine risulta stampato a Noventa Padovana.

• A Federico II viene attribuita questa frase :«Insensati come siamo, noi vogliamo conquistare tutto, come se avessimo il tempo di possedere tutto», penso di non alterare il corso della storia affermando che Federico in primis parlava per gli altri, non per se stesso. Fermo qui il mio consueto ‘volo pindarico’ per non irritare il sempre ben disposto direttore del «GIORNALE DI PUGLIA» che mi fa andare al ‘passo’ anche senza… ‘sella’. • Il mio voto per il monumentale lavoro di Nigro risulta essere di 8¾ ( in modo da non confondersi con l’«Amarcord» de l’8½ del Federico de “ E la nave va” per «La strada» percorsa da «I vitelloni” che a “Roma” cercano “La dolce vita” ne “ Le notti di Cabiria”) e di un 7 pieno di stima per un editore che in un lustro di attività ha saputo collezionare risultati di grande rilievo e prestigio.

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