Immenso e immortale: Gilgamesh

FRANCESCO GRECO - “Gilgamesh è immenso! (…) E’ l’epopea della paura della morte”, Rainer Maria Rilke.

“Gilgamesh, dove vai? La vita che cerchi, non la troverai. Quando gli dei crearono l’umanità…”.

Frugò nel pr0fondo alla ricerca dell’immortalità. Forse accidentalmente la trovò e, essendo un poema work in progress (ogni tanto in Mesopotamia e dintorni spunta una tavoletta, un frammento su cui gli studiosi si accaniscono essendo diverse le redazioni, le scritture, i periodi) chissà, lo apprenderemo in futuro. Le tavolette prendono il nome dal museo dove sono conservate.

Una certezza però c’è: dalla sontuosa architettura del poema babilonese, sia le religioni che le epopee successive (e le loro narrazioni), ma potremmo dire le culture e le civiltà, hanno preso qualcosa: anche Odisseo ed Enea compiono un viaggio, gli Argonauti vanno in cerca del vello d’oro, che trovano, i popoli sul punto di ribellarsi ai sovrani avidi di tributi. C’è anche l’arca dell’alleanza, col diluvio universale che incombe (Gilgamesh lo chiama battello), “tutto l’oro che possedevo lo caricai a bordo”. E poi i sogni…

Sovrapposizioni e citazioni sparse a ogni verso: ne troverà e scoprirà di sue il lettore che si avventurerà in “Gilgamesh” (Il poema epico babilonese e altri testi in accadico e sumerico), appena riproposto in un’edizione (impreziosita dalla scansione di alcuni frammenti e da disegni) da tramandare ai posteri, da Adelphi, Milano 2021, pp. 320, € 24.00, curatela di Andrew George, traduzione di Svevo D’Onofrio.

E dunque, il mitico re della città-stato di Uruk e il servo-compagno Endiku partono per un viaggio nel mondo (la Foresta dei Cedri), nel cuore dell’uomo e dentro sé stessi, in cerca dell’alchimia che consentirà di reimpastare con l’argilla l’uomo per andare incontro a nuove cosmogonie e cosmologie. Un viaggio denso di allegorie, carsiche e di superficie, di insidie e prove che ha il valore di una continua iniziazione, la ricerca dello spiraglio per accedere al mistero, un’empatia con la mente degli dèi sino a fondere le due condizioni in un’unica essenza. 

Gli dèi sono gelosi della loro condizione, non vogliono condividerla, né farne dono e considerano il sovrano reo di superbia, accusano Gilgamesh di trascurare il governo e la felicità del suo popolo.

Il postulato di partenza pertanto appare l’intercambiabilità dello status fra uomini e dèi: nel senso che le divinità assumono forma antropomorfa, gli uomini a loro volta si immaginano come dèi. Vivono insomma in una continua, ontologica contaminazione, scambiandosi i ruoli. 

In un Occidente secolarizzato, ai piedi di divinità surrogate e straccione, dove ogni spiritualità appare formattata e ogni epopea eterodiretta, all’uomo global confuso e in cerca d’una miserabile password, Gilgamesh (“simile a un toro selvaggio, è più potente di ogni essere umano”) insegna che il viaggio è possibile e la mèta preziosa: non è forse il sogno di ogni uomo dagli albori della civiltà? 

Quel che conta è partire, osare (“solleva il coperchio che cela il segreto…”), rischiare: posto che il viaggio sia ancora possibile…

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