Il mondo cattolico e le demenze



FILIPPO MARIA BOSCIA
- La malattia, l’Alzheimer, non sta in una definizione, ma in una storia personale, nelle storie personali dei tanti sofferenti. Noi oggi vogliamo occuparci di queste storie.

Il racconto delle storie va inteso come attività squisitamente umana di importanza cruciale e vitale, soprattutto in un tempo di crisi, di disattenzione e di divisione.

Ogni storia origina da un racconto; il racconto snoda fili di una trama, che intrecciandosi opportunamente fra loro, costituiscono la tessitura di identità, oggi smarrite, isolate, spesso scollate fra loro, perché quasi mai le storie personali e quelle comunitarie si incontrano. E’ estremamente necessario questo racconto di storie, affinché i fili esili, ma preziosi, di tessitura non siano spezzati.

La narrazione di queste storie permette di liberarsi da pregiudizi e di respirare meglio in un mondo che tende a soffocarle e ad oscurarle. Abbiamo il compito di non operare cose semplici, ma azioni complesse, direi comunitarie, vista la dimensione sociale, etica e morale e che coinvolge tutti: famiglie, strutture sociali, fondamentali servizi organizzativi, assistenziali, strutture di servizio e di sostegno, ma anche il campo delle comunicazioni sociali.

Occorre che i nostri comportamenti, le nostre azioni e le nostre convinzioni siano capaci di sostenere l’essere persona che è parte di un tessuto vivo.

Il Papa emerito Benedetto XVI e il nostro Papa Francesco, esprimendo sollecitudine apostolica, si preoccupano per le persone fragili e insistono sulla diaconia, che deve essere esercitata comunitariamente nel sociale se si vuole che essa sia portatrice di un servizio, di un servizio di amore verso il prossimo.

Esistono tante strutture profit e no-profit che si offrono per l’assistenza e per l’accoglienza, ma non bastano! Noi oggi vogliamo parlare del valore della vocazione per il bene dell’umanità, respirare la verità delle cose buone. Abbiamo responsabilità partecipative per attivare progetti di sviluppo umano integrale e per questi bisogna lottare attivamente, affinché presidi e ambiti essenziali comprendano anche l’esercizio morale della carità e nel contempo siano vivificanti e profetici.

Azioni in tal senso non possono essere attività dei singoli, individualmente espressi, ma esigono di essere svolti comunitariamente.

Non dobbiamo dimenticare che molti slittamenti sono stati determinati da prevaricazioni, da ingiustizie, da violenze che oggi ci pongono profondi quesiti: non si tratta solo di migliorare le condizioni di assistenza o perseguire il superamento di alcune difficoltà, ma si tratta di attivare una nuova grammatica della vita che può rendere superabile, l’insuperabile. Ogni vita ha valore, crea valore e nessuna vita deve essere esclusa.

I progressi scientifici sono importanti, ma la loro valenza deve essere esaltata da interventi a tutto campo, non solamente in riferimento al corpo ferito, ma affinché il corpo malato sia inteso come intreccio di materia, di spirito, sensibilità e di delicatezza. E’ questo un aspetto dominante che investe tutti i rapporti, ma in special modo quelli che intercorrono tra operatori sanitari, medici e pazienti sofferenti.

L’homo patiens, che soffre e patisce, è ancor più sopraffatto se non v’è conforto, ascolto, sguardo, accompagnamento. Non bastano le domande che rivolgiamo alla scienza, abbiamo necessità di scuotere tutti i contesti organizzativi che, anteponendo esigenze aziendalistiche, si sono impoveriti, soprattutto su questi temi di frontiera, laddove i profondi linguaggi della vita, hanno perso quella carica di passione per l’uomo e si sono dappertutto deumanizzati.

Non si può chiudere con la sola tecnica il cerchio del prendersi cura. Voglio riaffermare con forza che se l’interesse della medicina si focalizza sempre più sui soli interessi patologici e tecnologici, l’homo patiens passa in secondo piano, diventando portatore passivo di uno stigma, relegato ad essere spettatore della semplice azione di lotta che il medico esercita contro la malattia. Noi vogliamo un medico “com-patiens”, capace di associare alla competenza la compassione.

Credo che le categorie sanitarie possano in queste realtà fare molto. Se i pazienti, etichettati come utenti di un servizio sanitario traballante continueranno ad essere equiparati a clienti, continueremo a registrare la debolezza del sistema sanità, che merita di essere riformulato e rifondato, soprattutto perché in una siffatta organizzazione non troviamo e non riconosciamo più spazi di ascolto o di percezione del grido silenzioso dei sofferenti. Occorre impegno convinto e stringente per la salvaguardia delle identità!

La situazione della demenza è il primo fattore di rischio che apre la porta a maltrattamenti, abusi, violenza. Chi soffre di demenza è sempre persona e anche nel buio della propria patologia, quando ha momenti di squarci e di consapevolezza, deve poter piangere o anche gioire.

Su questa violenza occorre fare chiarezza perché non accada che per risolvere i problemi della sofferenza si giunga ad eliminare il sofferente, che con la sua demenza infastidisce i sani.

La deriva dell’eutanasia va risolta con maggior impegno per l’eubiosia. In alcune strutture vige un clima di terrore: puntuali ricerche hanno dimostrato che il 30% del personale ha visto violenze con i propri occhi ma non ha riferito. Il 15% ha tollerato, il 10% è stato co-autore.

Oggi io voglio aprire uno squarcio sul problema della solitudine, dell’abbandono, dello sradicamento, della emarginazione e della istituzionalizzazione degli ammalati. Occorre porre particolare attenzione ad un problema occultato che è quello del maltrattamento dei fragili, dei dementi, dei neurolesi, verso i quali sono perpetrati abusi e violenze. Le statistiche parlano chiaro: in un 6-8% dei casi viene violata la dimensione personale.

Occorre aprire gli occhi su questo tema drammatico e insidioso perché proprio nelle demenze questi abusi sono ancora più gravi. Le demenze sono condizioni di deficit cognitivo che fanno perdere l’identità, disgregano la personalità, lacerano la memoria e impediscono cronicamente ogni possibile difesa.

In questo campo c’è un sommerso di violenza difficile da individuare.

Sono tanti i malati di Alzheimer che hanno subito abusi, sono tanti i maltrattati, gli abbandonati, i derisi, i vilipesi, gli immobilizzati ai loro letti, legati da corde virtuali o da corde reali.

Le condizioni delle demenze sono realtà nelle quali la complessità del male può avere un andamento spirale e l’Alzheimer, definito la malattia delle 4 A (Amnesia, Afasia, Agnosia, Aprassia) è una di queste.

È un male generato che a sua volta è generato ad andamento spirale.

Se si entra all’improvviso e non preannunziati nelle strutture di assistenza ci si potrà rendere conto di quanto sia grave la condizione degli abusi e della violenza.

Le telecamere nascoste di video sorveglianza in tante strutture ci rendono edotti della realtà. Noi desideriamo che i nostri occhi vedano oltre. Desideriamo che le nostre orecchie percepiscano l’urlo dei maltrattamenti subiti dai fragili.

Un recente studio pubblicato ha evidenziato che frequentemente il personale di assistenza è stato autore o co-autore di maltrattamenti e di evitabili violenze.

Molti operatori sanitari, in anonimato, ammettono di averlo fatto, altri ancora, hanno visto ma non riferiscono. In ogni caso il problema esiste.

Questi dati, che taluni giudicano esagerati, sono per verità molto vicini alla realtà.

Un secondo fattore di rischio, intimamente connesso al primo, e forse ancora più grave riguarda gli operatori che si occupano delle persone anziane affette da demenza. Violenza è in Medicina anche l’abitudine di considerare la persona un semplice meccanismo da riparare, un apparato neurologico o psichico da decostruire da rieducare o peggio ancora un elemento del sistema da riequilibrare!

Ricordiamoci che sarà possibile concretizzare un rapporto da uomo a uomo e da persona a persona solo avvicinandoci a lui, prendendolo per mano in una missione di soccorso, abbracciandolo nelle sue necessità corporali e spirituali. Possiamo chiederci ad esempio se abbiamo sempre sopportato con pazienza la loro disabilità? L’azione di conforto è stata da noi vissuta come sinonimo del consolare o l’abbiamo applicata in tutto il suo contenuto, ovvero nella sua radice di forza, che significa dare forza, incoraggiare, orientare nelle situazioni difficili, intervenire nelle inadeguatezze delle strutture? Facile è lamentarsi, più difficile è impegnarsi.

I curanti, sananti, medicanti e fascianti sono quegli operatori sanitari che al momento stesso diventano com- patiens: Per la loro missione devono prendersi cura delle persone sofferenti, devono farlo per amore del Signore! Così facendo cureranno anche sé stessi e faranno bene alla loro anima.

Continuando a spiegare le funzioni di un corpo malato, smettiamola di utilizzare la metafora della macchina. Il corpo umano non può essere paragonato ad una macchina, semplicemente regolata da leggi meccaniche o dalla disponibilità di pezzi di ricambio. Sottolineiamo il valore della persona alla quale sono attribuite sensibilità, emozioni, azioni e funzioni psichiche, a volte coscienti e razionali, a volte inspiegabilmente anche irrazionali.

Terza riflessione: Complice il burnout è possibile a volte ignorare o non essere più in grado di raccogliere le domande più inquietanti poste dalla vita fragile.

Stanchezza e ripetitività delle azioni possono opacare lo sguardo e possono silenziare l’ascolto, venendo meno allora quei compiti ineludibili del sostenere, consigliare, confortare, sopportare e supportare ogni persona ammalata.

Laddove occorre risparmiare, facciamolo con oculatezza, cercando di non trasformare la salute in una mera operazione economica di profitto.

Contro ogni tentazione di emarginazione il paziente sia collocato sempre al centro di ogni possibile accoglienza. Al quarto punto, come medico cattolico, vorrei ancor più soffermarmi ed esaltare le necessità spirituali. Le necessità sono ancora più urgenti quando la malattia trasforma i tratti individuali, o quando il paziente è limitato nelle sue libertà di pensare, di agire o, depersonalizzato, non è più in grado di esprimere consapevoli scelte: Nelle ultime miglia di vita evitiamo l’abbandono e preveniamo dimenticanze inadeguatezze e violenze!

Le necessità spirituali sono ampie perché partono, come già detto, dall’istruire, consigliare, consolare, confortare, sopportare con pazienza, direi coccolare, perdonare, supportare, usare misericordia.

Quando le nostre terapie farmacologiche o ipertecnologiche non si renderanno efficaci, proprio allora dobbiamo rendere più efficace il prendersi cura, sostenendo e incoraggiando gli operatori sanitari, in fuga per il burnout, ad essere sananti, medicanti e fascianti. Queste tre funzioni mostrano la loro efficacia su tutti i casi clinici e mirabilmente trasformano casi clinici in storie personali, in storie individuali, ripersonalizzando la sofferenza.

Un ultimo aspetto che desidero sottolineare è che nella sanità va ripensato tutto il sistema. Proprio in questo momento in cui si parla di federalismo differenziato, è fondamentale a mio avviso ribadire il rispetto dei diritti della persona, che devono essere uguali su tutto il territorio nazionale.

I livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, oltre che sanitari, devono essere garantiti sempre e dovunque su tutto il territorio nazionale. Smettiamola di presentare sterili dati di monitoraggio economico o di discutere su tassi più convenienti. Smettiamola di porre gli indicatori su aree privilegiate, smettiamola di mostrare approcci riduttivi a questioni complesse con nessuna volontà di affrontare il nodo vero della questione.

Dobbiamo tener conto che sono cambiati i bisogni di salute e che non è più tempo di tenere in piedi una medicina diseguale.

In carenza cronica di personale se non si tiene nemmeno conto delle condizioni nelle quali già oggi i medici e gli operatori sanitari lavorano, non si va da nessuna parte e chi vuole nascondere i molti problemi della sanità, colposamente aggiunge altre preoccupazioni alla farragine delle polemiche in sanità.

Dobbiamo lavorare molto affinché a partire dalle Università si recuperi un ambito culturale più ampio, che non tralasci la olistica vicinanza al paziente e la piena condivisione del senso del dolore e della sofferenza.

Gli operatori sanitari solo se saranno capaci di trasmettere la scienza del vivere e l’amore per la vita saranno accolti dalle persone ammalate come alleati, ancor più se saranno capaci di gestire in modo umano e personalizzato gli stati di sofferenza, anche di quella estrema, affinché la malattia non stia in una definizione ma sempre più in una storia.

La crisi dell’umanità troverà soluzione solo se la nostra forza sarà quella di ripartire nel segno universale e incancellabile dell’umano.

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