Ciao Franca, mancherai un sacco alle 'tue' donne


FRANCESCO GRECO -
A Natale l’avevo chiamata per gli auguri. Avevamo parlato a lungo e poi le avevo chiesto:“Posso venire a trovarti?”. E lei con voce dimessa: “Adesso no, non sto tanto bene, poi ti chiamo io e ti dico…”. Era stato Leonardo Ferilli a informarmi che andava in farmacia a prendere i suoi farmaci salvavita.

E’ partita verso l’ignoto la dottoressa Franca Cecere, persona e personaggio popolare, molto amato, conosciuta dai territori come “la Franca”.

Psicologa e primario psicoterapeuta, era stata una pioniera dei diritti delle donne, la loro emancipazione (ma senza le asprezze ideologiche del femminismo militante) e nel 1975 aveva aperto il primo consultorio famigliare in Puglia, a Specchia (Lecce). La sua Fiat 500 divenne popolare, unica, riconoscibilissima.

Solo molto tempo dopo le istituzioni avevano provveduto a una normativa a difesa dei loro diritti nella maternità, nella vita di coppia, sul lavoro, nella società. Non era stato facile, fra oscurantismi e progressismi di facciata: aveva subìto boicottaggi e minacce: il contesto era arcaico, chiuso e le donne non avevano coscienza dei loro diritti. “Il consultorio – mi confidò - era considerato un luogo di prostituzione e di aborti…”.

Le sue intuizioni le aveva affidate a un quadernone che sfogliava e leggeva quando andavo a trovarla. Ne era orgogliosa, ma anche amareggiata per il fatto che di quel lavoro immenso, appassionato, in profondità, durato 24 anni, ormai nella Storia, era rimasto poco e niente, le donne erano di nuovo quasi indifese, la salute dei territori prosciugata (“Alla fine – riflettè amaramente – ci chiusero il consultorio perché lavoravamo troppo…”). Stavo ad ascoltarla attento, in silenzio: parlava di una materia che per me è, come si dice, arabo. Mi raccontava dei casi più delicati (“I ragazzi che ho salvato dalla droga mi chiamavano mamma”), a volte aveva sfruttato le sue conoscenze per aiutare le donne anche materialmente. Spesso mi invitava a pranzo, non mi mandava mai via a mani vuote: aveva sempre una sorpresa per me, a volte le squisitezze di una pasticceria della zona, altre volte chili di nespole dall’albero maestoso del suo giardino.

Nella sua domus ero di casa, il suo salotto come un’accademia: si imparava sempre. Come ci ero arrivato? La bibliotecaria Rosanna Schina mi aveva parlato di lei, del suo lavoro ormai negli annali e proposto: “Perché non la intervisti?”. Lo avevo fatto l’8 marzo 2018, e poi ero tornato sull’argomento nel 2020 (on line potete trovare i materiali). 

Con lei la vita era stata crudele e ingiusta. Era rimasta vedova giovanissima, con due figlie piccole da crescere. Un giorno di fine estate si preparava a tornare al suo lavoro di insegnante quando la notizia dell’incidente di Leuca in cui aveva perduto il suo Giorgio l’aveva folgorata. Mi parlava di lui con lo sguardo perduto in un sogno: l’incontro, l’amore, le nozze. Mi mostrava l’album delle foto.

Mi raccontò del primo incarico da insegnante nelle campagne del Brindisino, la scuola era in una pajara, lei alloggiava nell’altra accanto, i bambini venivano dalle masserie intorno. Nel primo film della figlia regista Giorgia - di cui era orgogliosa e mi raccontava tutte le interfacce del suo lavoro - è narrato con accenti di intensa poesia. Mi mostrava i giornali che parlavano dei suoi film e i dvd.

La vita si era accanita sulla Franca. Mi parlò della figlia Anna Maria, dottoressa, con grandi prospettive di carriera, perduta giovane nonostante le viste specialistiche in mezzo mondo. Aveva trovato conforto e aiuto nella madre, a cui era perennemente grata.

Un giorno mi telefonò, voleva mostrarmi qualcosa. Erano dei quadernetti dove con la poesia aveva provato a elaborare i suoi lutti. Poesie belle e tragiche. Voleva pubblicarle, passammo delle giornate a fare editing, sistemarle in tre sezioni. Trovai un editore, i libri uscirono. Franca voleva che i proventi andassero a un’associazione umanitaria.

Mi piace immaginarla nel suo salotto, mentre parla della sua materia in cui era, come si dice, un pozzo di scienza, o a tavola, mentre mi porge i piatti, o mentre governa i colombi che a frotte planavano nel giardino.

La sua 500 ha messo la freccia e si è fermata, ma donne come “la Franca” restano sospese nell’aria come aquiloni a primavera, vivono nella memoria di tutti noi, nella nostra vita quotidiana, e in quella delle “sue“ donne, con i loro insegnamenti, il coraggio, la responsabilità, le lotte portate avanti a mani nude.

Grazie Franca e a presto rivederci nel tuo salotto, magari hai un altro boccaccio di fichi secchi con le mandorle da regalarmi?

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