Libri: Nicola Mascellaro 'Il cinema nei cinema di Bari'

LIVALCA - Per noi ‘veterani’ la parola cinema fa pensare immediatamente a Besançon, città della Francia centro-orientale specializzata in orologeria di alto livello, e ai fratelli Auguste e Louis Lumière da tutti conosciuti come gli inventori del ‘cinematografo’: apparecchio brevettato con questo nome il 13 febbraio 1895. I fratelli costruirono una macchina capace di riprendere, stampare e proiettare immagini in movimento e lungo tutto il 1895 realizzarono brevi film, oggi diremmo documentari, in modo da allestire un primo spettacolo pubblico a Parigi il 28 dicembre di quell’anno in una sala del “Grand Café” in boulevard des Capucines. Dal momento che, come la storia insegna, dietro ogni invenzione vi è un italiano mi piace segnalare che i fratelli Lumière si sono anche avvalsi di ricerche partite secoli prima: dalla fotografia senz’altro, ma anche da considerazioni su una scatola chiusa contenente una fonte luminosa che aveva appassionato anche il nostro scienziato napoletano Giambattista Della Porta che, valutando attentamente le proiezioni delle immagini, ha consentito a Kircher nel 1646 di perfezionare il tutto dando vita ad uno strumento ottico da proiezione chiamato ‘lanterna magica”.

La mia ‘lanterna magica’ oggi si chiama Nicola Mascellaro: l’uomo noto come Archivio vivente della Gazzetta del Mezzogiorno mi aveva fatto visionare, lo scorso anno, gli originali di un lavoro ‘pazzesco’ dal titolo provvisorio ‘Il cinema a Bari’ e quando ieri ho visto la sua immagine, varcare la soglia del mio studio con una borsa, ho pensato mi consegnasse una piccola enciclopedia ed invece mi ha fatto dono di un libro «Il cinema nei cinema di Bari. L’epopea del neorealismo 1947-1953» (DI MARSICO LIBRI, Modugno/Bari 2023, ill., pp. 428, € 22,00) che presuppone che a breve vi saranno nuove… ‘proiezioni’ cartacee.

Senz’altro Nicola si è ispirato al volume di Oscar Iarussi “Andare per i luoghi del cinema” (il Mulino Bologna 2017, pp. 174, € 12,00) perché l’attuale direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno” in ultima di copertina aveva scritto: «Caratteristica cruciale del cinema italiano è la relazione costante con i luoghi: visitiamoli e prenderà forma una meravigliosa geografia visionaria”.

Il volume di Mascellaro ti regala quello che promette nel titolo: un corposo excursus dei film programmati nei cinematografi di Bari, non mancando di citare note di costume e fatti accaduti di storia locale e spesso eventi nazionali che hanno condizionato e forse cambiato il tragitto del nostro Paese (esempio lo storico passaggio di borraccia al Tour de France avvenuto il 6 luglio del 1952 - Nicola correggi quel 1951 nella didascalia: sui libri le date devono essere a prova di verifica - sul Col du Galibier tra Fausto Coppi, che vincerà la corsa dopo aver trionfato anche al Giro d’Italia, e Gino Bartali. Scusa Nicola gli appassionati di ciclismo sanno che lo svizzero Hugo Koblet vinse il suo unico Tour nel 1951, dopo aver vinto, primo non italiano a farlo, il Giro d’Italia del 1950).

Il neorealismo cinematografico nasce e si sviluppa in Italia al termine della seconda guerra mondiale perché tutto quello che era relazionabile con il ‘fare cinema’ era distrutto o inutilizzabile (Cinecittà, il centro di produzione romano voluto dal fascismo negli anni ’30, era adibito al raggruppamento e sistemazione dei profughi e, quindi, inagibile) ed allora registi, autori e sceneggiatori decisero, solo in apparenza, di improvvisare, nella realtà fecero diventare paesi, città, strade, palazzi, mercati e la vita quotidiana: teatri di posa; anche gli attori venivano presi dalla strada e raccontavano la loro esistenza vera.

In verità come notò argutamente qualcuno era uno spaccato di vita vissuta: quello che in seguito fece Nanni Loy con il suo “Specchio segreto”. Quel periodo forse lo stanno ancora studiando gli storici, perché, come spesso accade nei frangenti difficili, si è argomentato sulle diversità personali dei singoli registi e non su quel clima comune che non faceva vergognare della momentanea povertà e di quel degrado che era palpabile; come palpabile era la dignità, il decoro, il contegno e la fierezza che mostravano le persone felici di vivere in una libertà senza prezzo, per cui erano disposti, come in realtà è avvenuto, a sopportare enormi sacrifici pur di riconquistare un futuro per figli e nipoti.

Onestà impone di ammettere che il libro è scritto a quattro mani, perchè tanti sono i pezzi ‘prelevati’ dalle geniali critiche cinematografiche redatte negli anni da quel Piero Virgintino cui Nicola nel 2021 aveva già dedicato testimonianza di vero affetto e riconoscenza con il libro «Piero Virgintino, il critico che raccontava il cinema», sempre per l’editore DI MARSICO LIBRI e che il Giornale di Puglia aveva segnalato con una nota di Livalca l’8 maggio 2021.

Al cinema Galleria - come ci ricorda l’attore, poeta e scrittore barese Gigi De Santis in una breve e pur interessante-stimolante-avvincente appendice in cui elenca la storia dei 128 cinema che hanno ‘lavorato’ e ‘lavorano’ a Bari dal 1897 al 2019 - in via Crisanzio, il 4 febbraio del 1948, va in scena l’inaugurazione d’una sala con 2000 posti e, alcuni mesi dopo, verrà proiettata la pellicola di Charlie Chaplin “Monsieur Verdoux”: film prodotto, scritto, diretto, interpretato e musicato da quello che per tutti noi sarà sempre Charlot. Il film va prima visto e poi verranno fatte le opportune riflessioni. In sintesi la trama verte sulle disavventure di un bancario che, licenziato in seguito al crollo della borsa di Wall Street il 24 ottobre del 1929, avendo un figlio e una moglie malata da mantenere, decide di intraprendere la carriera di playboy. Seduce con maestria facoltose donne sole, privandole dei loro beni e poi le uccide. In seguito alla morte del figlio e della moglie decide di consegnarsi alla giustizia: morale in una società spietata sono sullo stesso livello chi delinque per necessità e coloro che delinquono per potere? Chiaramente la storia ci ha palesato, e lo palesa ancora, che vi sono regole da ‘rispettare’, altrimenti dal caos non nasce niente di duraturo. Vi segnalo a pagina 54 del volume quello che scrisse un giovanissimo Piero Virgintino: reputo non corretto estrapolarlo, ma vi consiglio di leggere dall’inizio il capitolo “Le ‘prime’ del cinema” e poi ‘schierarvi’.
«… una storia semplice, umana, dal respiro lirico, vibrante di commozione, senza falsi toni, senza ombra di retorica, senza rancori e accuse, ma con un velo di tristezza e di rimpianto» questo scriveva il critico Virgintino per uno dei migliori film di sempre della storia del cinema: “Ladri di biciclette”. Vittorio De Sica era stato ‘costretto’ a fare da produttore al film, in cui credeva enormemente, per mancanza di disponibilità delle case di produzione e qualcuno aggiunse malignamente ‘ecco il motivo per cui aveva preso dalla strada gli attori’. I tre maggiori attori protagonisti del film, di cui il solo bambino Enzo Staiola vivente, hanno proseguito una carriera onesta ma senza toccare il successo del loro primo film: sia il padre del bambino Lamberto Maggiorani, che la madre, la giornalista, scrittrice ed attrice Lianella Carrel; quest’ultima, che fu uno dei tanti colpi di ‘genio’ di De Sica, è stata quasi sempre coautrice dei testi delle trasmissioni di Raffaella Carrà.

Mascellaro, con giusto orgoglio italiano, cita - come fanno tutti - che “Ladri di biciclette” ottenne l’Oscar a Los Angeles il 23 marzo 1950 come miglior film straniero in gara, ma come scrissi in ‘anni sinceri’, sul settimanale di cinema e sport “Settegiorni” diretto da Aurelio Papandrea, questa sezione del premio fu varata solo nel 1957: al nostro capolavoro fu consegnato un premio definito ‘onorario’ nella veste di miglior film in lingua straniera uscito negli Stati Uniti nel 1949. Chiaramente sempre Oscar fu e non bisogna dimenticare che la pellicola ebbe la nomination e quindi concorse all’Oscar per la migliore sceneggiatura con Cesare Zavattini. Anche qui una doverosa insignificante chicca: il soggetto fu di Zavattini, ma ben sette furono gli sceneggiatori: Bianconi, Cecchi D’Amico, De Sica, Franci, Gherardi, Guerrieri e Zavattini.

Sempre Piero Virgintino per “Ladri di biciclette”: «C’è da chiedersi se è plausibile che tanta forza di poesia, tanta bellezza, ingegno e genialità artistica debbano da un giorno all’altro scomparire, soffocate dalle pistolettate, dai cavalli sfrenati, dalle frecce dei ‘pelle rossa’ e dai baci a cronometro. Soprattutto c’è da pensare con amarezza alla scoraggiante indifferenza del nostro pubblico incanalato verso un gusto grossolano, scettico nei confronti delle più belle opere del cinema italiano». Maestro Virgintino nello scusarmi preciso che venero i più bei film della nostra storia del cinema, ma devo confessare di aver ‘gustato’ anche il genere western di Robert Robertson, meglio noto come Sergio Leone… il quale ha partecipato al film di De Sica in una duplice veste: aiuto regista e comparsa.

Il famoso regista Sergio Leone nasce da Vincenzo, regista e sceneggiatore di origini campane che aveva scelto come nome d’arte Roberto Roberti: ecco non spiegato, ma dato un piccolo segno logico al fatto che Sergio abbia firmato la sua trilogia “Per un pugno di dollari”, “Per qualche dollaro in più” e “Il buono, il brutto e il cattivo” con lo pseudonimo di Bob Robertson. De Sica, convinto dal padre di Sergio, prende come aiuto regista per “Ladri di biciclette” Leone junior ed inoltre gli costruisce su misura una parte da seminarista tedesco. Solo per la cronaca in questo film hanno lavorato come doppiatori (non difficile riconoscerli) Aldo Fabrizi e Alberto Sordi.

Per il leggendario “Vacanze romane” Mascellaro ci rivela che la prima andò in scena a Bari, presso il cinema Impero, il 23 dicembre del 1953 e fu un successo di pubblico e Virgintino con garbo annota quello che nel tempo dovettero ammettere tutti: un film in cui viene allo scoperto il ‘mestiere’ del regista William Wyler, l’eleganza sobria e misurata di Gregory Peck, e la grazia della nuova interprete Audrey Hepburn, sconosciuta ai più, ma che l’anno dopo vincerà l’Oscar come migliore attrice protagonista («Il cinema è un business in cui entri perché sei egocentrica. E’ una professione molto imbarazzante» A. Hepburn).

Gli americani nell’organizzare questi eventi di ‘successo’ sono dei maestri e noi italiani ringraziamo perché oltre l’enorme pubblicità che ebbe la Vespa, su cui il giornalista condusse per Roma la giovane principessa per ammirarne le bellezze, il riscontro in termini di turismo fu notevole ( Una frase attribuita al produttore Carlo Ponti sintetizza: «Se un film ha successo è un affare, se il successo non arride è …arte»).

In quello stesso anno al cinema Margherita viene proiettato un film tratto da una commedia che Peppino De Filippo aveva scritto nel 1942 “Non è vero, ma ci credo”: una pellicola in cui Titina e Peppino De Filippo danno un saggio del loro immenso talento, assistiti da un giovane e validissimo caratterista di nome Carlo Croccolo; ed ancora ‘er core de Roma’ Aldo Fabrizi, pochi mesi dopo, ispirandosi ad un racconto di Giorgio Bianchi decide di produrre il film “Una di quelle”. In questa pellicola che Fabrizi dirige, sceneggia ed interpreta vedremo per la prima ed ultima volta insieme Totò, Peppino De Filippo ed Aldo. La parte di protagonista della storia viene affidata ad una dolcissima e limpidissima Lea Padovani che, nonostante interpreti una ragazza madre, cosa inusuale per i tempi, conferisce al ruolo sia malinconia che sentimento. Virgintino nelle consuete note sulla pellicola non manca di esaltare la «…caratterizzazione umanissima e sincera, veramente da grande attore, una prova superiore a quella di “Guardie e ladri”» parlando di Totò, come precisa anche «La vicenda si svolge in un mondo reale fatto di cose banali, di piccole cose comuni e quotidiane, di drammi nascosti, di umane miserie».

Con vero realismo il nostro cinema sta allontanandosi dal neo-realismo verso la fine del 1953 per approdare nel filone della commedia all’italiana, ma il racconto che Mascellaro fa di quegli anni non è solo cinema: lui integra le notizie che copiose, interessanti ed ingenue-scaltre ci propina, con i fatti accaduti negli anni presi in esame. Un cinema nel cinema: ogni pagina è una storia che insegna senza salire in cattedra, una pagina in cui la passione e le idee si possono commentare perché Mascellaro, nonostante abbia pubblicato quasi 20 libri, precisa che non è un lavoro per studiosi, ma per semplici lettori che amano quello che il cinema regala a tutti… allo stesso prezzo. Sinceramente avrei voluto occuparmi del film Niagara di cui ho un ricordo a… ‘cascata’, ma ritengo di aver percepito che sia Mascellaro che Virgintino lo considerino incidente di percorso. Non nascondo di aver tifato all’epoca per il marito, per me un ottimo Joseph Cotten, che era pur sempre un reduce della guerra in Corea. Il film probabilmente risulta insopportabile per la tragica conclusione cui vanno incontro i protagonisti del triangolo.

Nel secolo scorso in uno scritto mi sono occupato di Marilyn Monroe e citai una frase della stessa che provo a sintetizzare: «Hollywood è un posto dove ti pagano migliaia di dollari per un bacio, nemmeno cinquanta centesimi per l’anima». Non sempre è una fortuna nascere in America, molti l’hanno trovata in Italia… ma questa non è più neanche storia e non meraviglia più nessuno, tanto è vera che diventa… verosimile.

Mi permetto di suggerire a Gigi De Santis di trasformare la sua preziosa ricerca sui cinema di Bari in un libro: sviluppando ed ampliando le notizie storiche che riguardano luoghi e fatti e aggiornando ai nostri giorni il numero delle sale. Per le notizie può chiedere la collaborazione dell’Archivio Gazzetta tramite Mascellaro, senza dimenticare che Felice Giovine potrebbe ‘donargli’ un aiuto fondamentale.

Come baresi l’unica raccomandazione che possiamo esigere da Nicola è: per cortesia fai passare almeno sei mesi prima di ‘sfornare’ la giusta continuazione… altrimenti per leggere il libro le sale cinematografiche resteranno vuote e si darebbe ragione a Mario Monicelli che ci ha lasciato: «Il cinema non morirà mai, ormai è nato e non può morire: morirà la sala cinematografica, forse, ma questo non può interessarmi».

Carissimo e grandissimo Mario Monicelli ovunque lei sia ora dovrà convenire con me che il CINEMA, senza “L’armata Brancaleone” del pubblico, resterebbe “Un capriccio all’italiana” da “Borghese piccolo piccolo” ed invece necessitiamo tutti di “Amici miei” atto I e II.

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