Educare, insegnare, formare: tra gioco e messa in gioco di sé

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SANTA FIZZAROTTI SELVAGGI
- I più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti. (da Il più bello dei mari di Nazim Hikmet).

Noto molta preoccupazione da parte di pedagogisti di chiara fama, come per esempio Vittoriano Caporale, intorno alla necessità di educare le giovani generazioni dedite spesso a movide, atti di bullismo, comportamenti altamente trasgressivi, xenofobia e quant’altro. Preoccupazione più che giusta e motivata di cui sabato 27 pv parlerà presso L'Eccezione di Puglia teatro. Il gruppo, come si sa, rinforza i comportamenti e determina certi modi di essere e agire, facilita la destabilizzazione sociale che a sua volta fa crescere la pianta invisibile della tirannia ammantata della veste abbacinante della democrazia e una pseudo libertà di costumi, meglio sarebbe dire libertinaggio.

Il nostro cuore è un labirinto e si apprende dall’esperienza, come ha affermato Bion e non solo. Noi tutti viviamo come in un labirinto di specchi: fuor di metafora significa che siamo prigionieri di un insieme di proiezioni. Proiettiamo, infatti, all’esterno le parti che rimuoviamo, per cui l’incontro può trasformarsi drammaticamente in uno scontro generazionale mentre riaccende conflitti dolorosi per tutti…

E’ questa la sfida del mettersi tutti sempre in gioco: incontrare le nostre parti più fragili attraverso l’incontro con l’Altro che è sempre parte del nostro Sé.

Trattasi di antichi vissuti che poniamo inconsapevolmente in atto e riflettere sulle nostre messe in gioco diviene una sfida innanzitutto con noi stessi. Tanti sono gli studi su tale argomento sia dal punto di vista fenomenologico, socio-antropologico, psicologico.

E molti sono gli psicoanalisti che hanno scritto sul gioco, e il mettersi in gioco, comportamento che ha un ruolo fondamentale all’interno della vita dell’uomo. Per Aristotele la società è un grande gioco. Eraclito addirittura associa il corso del mondo al gioco del fanciullo cosmico Zeus e nel gioco è inscritta una forza poetica, vale a dire del costruire insieme, del plasmare il mondo. Il gioco costruisce i modelli della mente. La capacità di mettersi in gioco è un segno di salute, di libertà all’interno però di un’area transizionale, laddove non vi sono effrazioni, (Cfr D.W. Winnicott) ma “l’illusione, l’“illusio “ dal latino, “ludere”, che corrisponde a giocare ,in realtà a l’essere nel gioco, espressione pregna di significato. Una sorta di sogno sapendo di sognare, di vivere scoprendo nuovi mondi dentro di sé e dentro gli altri. Siamo custodi del presente e in tal senso anche del futuro. Nel gioco come nella messa in gioco non si dimentica la realtà ma questa si fa conoscibile nel senso che può essere infinitamente interpretabile. Esiste una compenetrazione tra giocare, mettersi in gioco e la cultura. E la messa in gioco di se stessi è un atto di consapevolezza, responsabilità, libertà. E’ questa la visione che svela la dinamica del cambiamento che non è mai facile. Un cambiamento riveniente dal mondo virtuale, mediatico, digitale, dalla cosiddetta “intelligenza artificiale”, mero strumento e non altro, che deve far riflettere per ritrovare l’unità dell’essere in gioco, della creatività nella sua integrità.

La messa in gioco, infatti, facilita lo svelamento di sé e non già l’occultamento di sé, della propria identità tramite il virtuale. Un travaglio perché trattasi della nascita di parti di sé sconosciute.

Il gioco è una lotta per qualche cosa, scrive J.Huizinga. La messa in gioco è una sfida con se stessi.

E’ interessante notare come ”il gioco sia un’azione, o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti definiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa; accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di “essere diversi” dalla “vita ordinaria”.” ( Cfr. J.Huizinga, Homo ludens Einaudi, 2002). Il gioco è sempre un gioco serio che coinvolge la corporeità nella sua interezza.

Tutto ciò permette all’uomo di focalizzare gli obiettivi nella propria vita da raggiungere attraverso percorsi sempre nuovi e non già determinati da giochi preconfezionati pregni tra l’altro anche di messaggi subliminali. Non è importante la meta, quanto il tragitto durante l’atto del giocare che ci consente di ritrovare in noi la parte sana dell’infanzia, dello stupire, della meraviglia dinanzi al mondo. E’ questo processo e la trasformazione lungo il percorso che aprono un varco nel futuro. In questa maniera si scoprono fino in fondo le proprie motivazioni e si possono creare mondi diversi diventando consapevoli che nulla è definitivo, ma tutto cambia. Come sapete però nel gioco le regole devono essere ferree e al medesimo tempo dettate dalla libertà.

Per esempio, tutti gli studiosi affermano il carattere assolutamente disinteressato del gioco che è più antico della cultura, tant’è che Winnicott attribuisce proprio alla possibilità di mettersi in gioco la nascita e la costruzione della cultura. Dispiace oggi osservare la massificazione della cultura e l’affermarsi sempre di più del pensiero unico e binario. Dal rapporto con la madre scaturisce la possibilità di giocare e del comunicare, dell’inventare il mondo con le parole. Già, perché sono le parole gli elementi che reinventano il mondo e non si dimentichi che il bambino impara a parlare se la madre gli parla… Il gioco che educa e che forma è una funzione che contiene un senso. E mettersi in gioco ha una funzione con doppia condizione di senso. Nel bosco delle parole che usiamo fondamentale per ritrovare le proprie motivazioni è ricostruire la cultura del giocare e della messa in gioco, vale a dire delle connessioni, dei legami umani e relazionali che sfuggono e si vanificano nell’uso smodato della navigazione in internet. Noto che finanche camminando molti guardano il telefonino con il pericolo di inciampare in ostacoli o in pizzeria, finanche dinanzi al mare… Il linguaggio "è un bosco di parole “, parafrasando il Quaderno operativo di Gabriella Fabrini – Maria Pileggi, Carmignani Editrice 2019. Il linguaggio è quel primo strumento che l’uomo si crea per poter comunicare, distinguere, definire, stabilire, nominare. Dietro ogni espressione c’è una metafora, e in ogni metafora c’è un gioco di parole. “Così l’umanità ricrea sempre la sua espressione per tutto ciò che esiste, crea un secondo mondo immaginato accanto a quello della natura. “ (Cfr .J. Huizinga, op. cit ). Le parole possono ferire, ma possono aiutare a guarire, a star meglio. In questa dimensione si vanifica la “solitudine fondamentale dell’essere umano”. ( D.W. Winnicott). Ricordiamo che le parole inventano la realtà mutandola. Hanno anche creato una categorizzazione dello sterminio. I capri espiatori. Hanno narcotizzato le coscienze: un fenomeno sempre più diffuso in un mondo che manipola tutto e il nostro vivere appare smarrito in un gorgo abissale.

Il linguaggio che usiamo ci organizza una vita mercificata mentre la messa in gioco con le parole e con gli atti è un esercizio di libertà. Educare per esempio oggi le giovani generazioni alla pratica costante e quotidiana dell’atto volontaristico, della solidarietà quale elemento fondante la civiltà, non è cosa facile poiché nella nostra contemporaneità la vita sembra non avere più senso se non quello del profitto e dell’utilitarismo economico. D’altra parte l’orrore al quale spesso assistiamo è il risultato della tragedia di un mondo privo di parola. Incapace di comunicare con sé e con l’Altro. È evidente che non è facile riscoprire la propria disponibilità all’ascolto, all’holding, per riappropriarsi della cultura della dignità dell’essere umano e della reciprocità in una società che con difficoltà percepisce il significato profondo della solidarietà. Una parola spesso abusata e logora che ha perso di pregnanza emotiva e ha quasi oscurato l’identità originaria della vita. Si tratta di un modo più profondo di ripensare l’essere umano all’interno di una realtà talvolta persa nei paradigmi dell’onnipotenza, della negazione della morte, del dolore e della sofferenza : nelle movide emergono l’indifferenziato, la finta allegria. Possiamo però ancora cambiare se si riesce a essere se stessi nella dinamicità propria del divenire delle cose. La coscienza della “frontiera identitaria”, che con l’” indifferenziato” non ha nulla che vedere, permette di stabilire un dialogo, di accettare l’Altro che apparentemente viene dall’esterno, ma che in realtà dimora da sempre dentro di noi, relegato nell’ombra dei nostri pensieri più reconditi. Fondamentale è l’idea di intersoggettività quale base per la formazione dell’identità che si nutre della memoria e della coscienza di sé nella continuità, nella condivisione di luoghi, affetti, storie. Di qui la possibilità di un cambiamento che strutturi e ristrutturi la realtà in un processo continuo alla luce del passato verso un progetto aperto ad un’epoca di avvento. Ricominciare ad ascoltarsi, a sentire, a ricentralizzare il valore della persona nella sua totalità è veramente fondante per una società che deve riflettere e continuamente vigilare sul suo evolversi. Di qui la necessità di una diversa costruzione di una rete di relazioni umane che non siano quelle del mondo mediatico, dei video, delle varie trasmissioni che facilitano il non pensiero in nome di godimento che tende a vanificare ogni valore fondante la coesistenza civile. E’ il linguaggio che, in ogni modo, ci permette di conoscere noi stessi e il mondo e non certamente le faccine dell’emoticon o i messaggi. Imparare ad ascoltare prima sé e poi l’Altro, apparentemente sconosciuto ed estraneo, permette di ascoltare la voce dell’altro e risentire in quella voce le esperienze affettive ed emozionali. Ed è per questo che conoscere (connaissance) significa nascere insieme all’altro in un processo creativo, in un intreccio in cui l’uomo si ritrova ad essere parte dell’altro. In un dialogo fecondo è possibile riconoscere la propria “id-entità” attraverso l’altro. Per esempio la musicalità della voce, il modo di proporre l’area di scambio dialogico strutturano «quelle condizioni per cui si può raccontare la propria vita ed esprimere i propri sentimenti»: in tal modo ciascuno di noi può sentirsi partecipe integralmente della storia del mondo. Le aggressività umane e la violenza possano essere sublimate e giocate in una terra di confine, neutrale come può essere l’area transizionale purché il bambino giochi con la madre, la cui assenza genera angoscia evitando che lo Smartphone diventi la protesi comunicativa che apre la voragine del nulla dialogico. Nel giocare e nel mettersi in gioco si facilita lo sviluppo del pensiero creativo che consente gli attraversamenti più arditi e la capacità di riconoscere parti nuove di se stessi attraverso l’Altro-da-sé. La conoscenza, che può essere condivisa attraverso i processi trasformativi propri della creatività, attiva un sistema articolato in cui tutti operano all’interno del rispetto delle identità di ciascuno. Il dialogo generazionale e transgenerazionale nel seno di una dimensione creativa è scambio e reciprocità. Certo, tutto ciò che si trasforma sempre appare doloroso, anche quando si tratta di diventare migliori. “La luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci” (Cfr. P.P. Pasolini, Il pianto della scavatrice, 1956). Mi chiedo spesso a che punto sia la notte in questa società così mercificata e mercificante… E poi mi rispondo che “Il mare più bello è quello che non navigammo” (Nazim Hikmet) e che pertanto, come Ulisse verso le Colonne d’Ercole (Dante, canto XXVI dell’ Inferno) desideriamo conoscere magari inventandolo, immaginandolo dentro di noi. Abbiamo, credo, nostalgia dell’alba, di ritrovare la possibilità della messa in gioco più ardita, ovvero di riscoprire l’amore per l’umanità, quell’amore che possa inanellare il mondo.

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