La drammaturgia generosa e gentile di Domenico Triggiani
FRANCO PERRELLI* - Bisogna inserire la fioritura della drammaturgia di Domenico
Triggiani nel periodo storico che copre il dopoguerra e segnatamente la rinascita
dell’Italia degli anni Cinquanta e metà degli anni Sessanta, nei quali la scena
nazionale cercava un assestamento, oltre che una nuova identità.
Vivaci erano i dibattiti fra una potente figura ministeriale come Nicola De Pirro, il (tarantino) direttore del “Dramma” Lucio Ridenti, Silvio d’Amico (sino al 1955) e uno stuolo di autori italiani, che inseguivano personalità come Guglielmo Giannini sulla strada del “drammaturgo che ci sa fare” ovvero in grado di calamitare verso le scene un pubblico da tempo attirato dal cinema e oramai dallo strisciante fenomeno della televisione.
Se ancora incombente era l’ombra di Pirandello (e non poteva essere altrimenti – ma persino di Goldoni!), Eduardo – dopo la scomunica fascista del dialetto – diffondeva un linguaggio più efficace, ma soprattutto certificava una sorta di strutturale plurilinguismo del teatro italiano, oltre che una visione più spassionata e concreta della realtà (e ben oltre Napoli). Il problema culturale nazionale rimaneva, nella sostanza, quello di sempre: italiani, ma a diversi livelli d’intensità; policentrici, come veniva implicitamente ad affermare pure la progressiva istituzione dei teatri stabili, sebbene il dibattito non riuscisse del tutto a esorcizzare la forza di talune tenaci tradizioni: la preminenza della compagnia di giro sull’istituzione; della libera “repubblica” del Teatro sullo Stato; del prestigio dell’autore sul regista e l’attore.
È in questo quadro contrastato che si motiva l’eclettismo di Triggiani, inteso come il tentativo di radicare una drammaturgia su questi variabili modelli organizzativi, ma anche espressivi, ancora appena sfiorati dai media, confortati da un’antica tradizione, con un occhio alle realtà locali, alla loro lingua e in particolare ai loro ceti dirigenti o emergenti, soprattutto quella media borghesia, protagonista nell’Italia dei consumi e in cerca di un chiarimento sulla propria essenza sociale, i propri costumi, la propria incisività, dopo la compressione della retorica fascista.
Su tale sfondo e con l’ottimismo dei ricominciamenti, Triggiani apre a un’analisi dei sentimenti di questa borghesia, che, al di là del piglio talora bonario, rivela sottili vocazioni moraliste e una precisa inclinazione a una delineazione non effimera di ambienti provinciali. Qui pensiamo in particolare a un testo ambizioso come “Peccati di provincia”, sebbene la voce dell’autore non esiti a sorpassarne i confini, in una prospettiva drammatica più sonora, quantomeno in quello che ci pare il suo testo più consistente, il lungo atto unico “Il dramma di un giudice”.
La preminente vocazione (in fondo goldoniana?) di Triggiani, mirante a coniugare il “verisimile” del mondo con le forme della scena, non lo trattiene tuttavia dall’indagare in svariate direzioni (né si dovrebbe ignorare che il personaggio fu coinvolto nello scomparso mondo dei GAD, che all’epoca non era privo di vitali fermenti artistici) e, quindi, dal musical (“Donne al potere”) al dialetto, cui ha dedicato ben 13 opere contigue a taluni fenomeni radiofonici locali di un certo seguito.
Bene hanno fatto i curatori (Nicola Triggiani e Rosa Lettini, figlio giurista e moglie ispiratrice e attrice) a porre in copertina ai tre volumi che raccolgono le opere di questo prolifico autore pugliese (lussuosamente editi da Cacucci con il titolo “A spasso nel Teatro di Domenico Triggiani”) un’antica fotografia che lo vede giovane, sorridente, con uno sguardo franco e ottimista, in lambretta (simbolo dinamico degli anni cui si accennava al principio) e sullo sfondo dei trulli: quello è stato davvero l’uomo (insieme franco e ottimista sulle realtà che descriveva); quello l’autore, il tempo e il suo ambiente.
Mi si consenta infine una memoria personale: bambino, l’appartamento della mia famiglia era prossimo a quello del “dr. Triggiani”, di cui ricordo bene la figura distinta e il garbo signorile; quando lo s’incontrava, mi sussurravano: “Sai, è uno scrittore...”.
Non so che concetto potessi farmi allora d’uno “scrittore”, ma chissà se, proprio per questo, non mi si sia fissata l’idea (che poi ho ritrovato in Brecht) che la gentilezza non sia piccola parte della scrittura, oltre che – ovviamente – della vita. E la drammaturgia di Domenico Triggiani, per come emerge dalla raccolta delle sue opere, ci parla oggi davvero generosa e gentile.
* Già Professore Ordinario di Discipline dello spettacolo nelle Università di Torino e di Bari
Vivaci erano i dibattiti fra una potente figura ministeriale come Nicola De Pirro, il (tarantino) direttore del “Dramma” Lucio Ridenti, Silvio d’Amico (sino al 1955) e uno stuolo di autori italiani, che inseguivano personalità come Guglielmo Giannini sulla strada del “drammaturgo che ci sa fare” ovvero in grado di calamitare verso le scene un pubblico da tempo attirato dal cinema e oramai dallo strisciante fenomeno della televisione.
Se ancora incombente era l’ombra di Pirandello (e non poteva essere altrimenti – ma persino di Goldoni!), Eduardo – dopo la scomunica fascista del dialetto – diffondeva un linguaggio più efficace, ma soprattutto certificava una sorta di strutturale plurilinguismo del teatro italiano, oltre che una visione più spassionata e concreta della realtà (e ben oltre Napoli). Il problema culturale nazionale rimaneva, nella sostanza, quello di sempre: italiani, ma a diversi livelli d’intensità; policentrici, come veniva implicitamente ad affermare pure la progressiva istituzione dei teatri stabili, sebbene il dibattito non riuscisse del tutto a esorcizzare la forza di talune tenaci tradizioni: la preminenza della compagnia di giro sull’istituzione; della libera “repubblica” del Teatro sullo Stato; del prestigio dell’autore sul regista e l’attore.
È in questo quadro contrastato che si motiva l’eclettismo di Triggiani, inteso come il tentativo di radicare una drammaturgia su questi variabili modelli organizzativi, ma anche espressivi, ancora appena sfiorati dai media, confortati da un’antica tradizione, con un occhio alle realtà locali, alla loro lingua e in particolare ai loro ceti dirigenti o emergenti, soprattutto quella media borghesia, protagonista nell’Italia dei consumi e in cerca di un chiarimento sulla propria essenza sociale, i propri costumi, la propria incisività, dopo la compressione della retorica fascista.
Su tale sfondo e con l’ottimismo dei ricominciamenti, Triggiani apre a un’analisi dei sentimenti di questa borghesia, che, al di là del piglio talora bonario, rivela sottili vocazioni moraliste e una precisa inclinazione a una delineazione non effimera di ambienti provinciali. Qui pensiamo in particolare a un testo ambizioso come “Peccati di provincia”, sebbene la voce dell’autore non esiti a sorpassarne i confini, in una prospettiva drammatica più sonora, quantomeno in quello che ci pare il suo testo più consistente, il lungo atto unico “Il dramma di un giudice”.
La preminente vocazione (in fondo goldoniana?) di Triggiani, mirante a coniugare il “verisimile” del mondo con le forme della scena, non lo trattiene tuttavia dall’indagare in svariate direzioni (né si dovrebbe ignorare che il personaggio fu coinvolto nello scomparso mondo dei GAD, che all’epoca non era privo di vitali fermenti artistici) e, quindi, dal musical (“Donne al potere”) al dialetto, cui ha dedicato ben 13 opere contigue a taluni fenomeni radiofonici locali di un certo seguito.
Bene hanno fatto i curatori (Nicola Triggiani e Rosa Lettini, figlio giurista e moglie ispiratrice e attrice) a porre in copertina ai tre volumi che raccolgono le opere di questo prolifico autore pugliese (lussuosamente editi da Cacucci con il titolo “A spasso nel Teatro di Domenico Triggiani”) un’antica fotografia che lo vede giovane, sorridente, con uno sguardo franco e ottimista, in lambretta (simbolo dinamico degli anni cui si accennava al principio) e sullo sfondo dei trulli: quello è stato davvero l’uomo (insieme franco e ottimista sulle realtà che descriveva); quello l’autore, il tempo e il suo ambiente.
Mi si consenta infine una memoria personale: bambino, l’appartamento della mia famiglia era prossimo a quello del “dr. Triggiani”, di cui ricordo bene la figura distinta e il garbo signorile; quando lo s’incontrava, mi sussurravano: “Sai, è uno scrittore...”.
Non so che concetto potessi farmi allora d’uno “scrittore”, ma chissà se, proprio per questo, non mi si sia fissata l’idea (che poi ho ritrovato in Brecht) che la gentilezza non sia piccola parte della scrittura, oltre che – ovviamente – della vita. E la drammaturgia di Domenico Triggiani, per come emerge dalla raccolta delle sue opere, ci parla oggi davvero generosa e gentile.
* Già Professore Ordinario di Discipline dello spettacolo nelle Università di Torino e di Bari