Quando al calcio bastava una… Parola

LIVALCA - Il primo campionato del mondo di calcio, quello conosciuto come Coppa Rimet, fu organizzato e giocato in Uruguay nel 1930, in uno stadio denominato Estadio Centenario, il quale era stato costruito appositamente per l’occasione e vi furono disputati tutti gli incontri di quel torneo. Le squadre partecipanti furono tredici, di cui solo quattro europee (Francia, Jugoslavia, Belgio e Romania) e le restanti americane (Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Messico, Paraguay, Perù, Stati Uniti e Paraguay) e, per quelli della mia generazione, pensare che vi fossero gli Stati Uniti … fa un certo ‘effetto’.

Vi furono tre gironi con tre squadre ed uno con quattro: gli Stati Uniti, in un girone a tre squadre, sconfissero con lo stesso punteggio il Belgio e il Paraguay, ossia per 3-0. Quindi approdarono alle semifinali dove persero per 6-1 con l’Argentina, lo stesso punteggio con cui l’Uruguay regolò la Jugoslavia. In finale poi l’Argentina perse per 4-2 con l’Uruguay che, nella capitale San Felipe y Santiago (San Filippo e San Giacomo) de Montevideo, fu la prima nazione campione del mondo di calcio. Consolazione per l’Argentina: il centravanti Stabile fu il capo cannoniere di quel mondiale con 8 reti in 4 partite, non giocò la prima partita in cui l’Argentina vinse di misura con la Francia 1- 0. In quello stesso 1930 l’attaccante Stabile fu acquistato dal Genoa e al suo esordio segnò una tripletta contro il Bologna, che era pur sempre lo squadrone con Monzeglio e Schiavio che ‘faceva tremare il mondo’: l’argentino concluse una carriera pregna di infortuni a Napoli, nel 1934, con tre gol in venti partite.

La nazionale italiana vinse i mondiali del 1934 e del 1938 avendo come allenatore Vittorio Pozzo: i primi furono organizzati dall’Italia e videro le partite degli ottavi di finale disputate a Roma, Genova, Torino, Milano, Bologna, Firenze, Trieste e Napoli; la finale fu disputata a Roma e gli azzurri superarono la Cecoslovacchia per 2-1 dopo i tempi supplementari, con rete di Schiavio, mentre la prima rete fu di Orsi, ala sinistra argentina naturalizzata italiana trasformando … ‘Raimundo in Raimondo’. In quella partita finale del 1934 anche l’ala destra era argentina Enrique Guaita, che era figlio di genitori italiani emigrati; particolare degno della migliore statistica registra che anche il centromediano della squadra italiana fosse argentino: Luis Monti, il quale quattro anni prima era stato vice campione del mondo con la sua Argentina, con l’aggravante che in finale, secondo le cronache dell’epoca, calciò in alto… “una rete già fatta”. Nel mondiale del 1934 il cannoniere dell’Italia fu Schiavio con 4 reti, mentre nel 1938 Silvio Piola con 5 reti. Il mondiale del 1938 vide la partecipazione di 34 nazioni e l’Italia, a partire dagli ottavi di finale, vinse tutti gli incontri: 2-1 con la Norvegia, 3-1 con la Francia, 2-1 con il Brasile e 4-2 la finalissima con l’Ungheria. Questo mondiale è ricordato per un evento rimasto unico nella Coppa Rimet: il giocatore tedesco Ernest Otton Wilimowski, naturalizzato polacco nel 1922, segnò cinque gol in un solo incontro nella partita che la Polonia perse con il Brasile per 6-5, dopo i tempi supplementari. Unici calciatori italiani ad aver disputato sia la finale del 1934 che del 1938: Giovanni Ferrari e Giuseppe Meazza, quest’ultimo, con 33 gol segue Gigi Riva, leader con 35, nella speciale classifica di miglior marcatore della storia della nazionale azzurra.

Torniamo a quel centromediano Luis Monti che sbarcò in Italia nel 1931 al porto di Genova, perché acquistato dalla Juventus: la prima impressione che diede, avendo 10 chili in più e 30 anni, fu di ex giocatore: nel giro di pochi mesi diventò il pupillo dell’allenatore Carlo Carcano, quello ricordato per il periodo d’oro dei 4 scudetti consecutivi vinti dal 1931 al 1934. Monti giocò 263 partite nella Juventus segnando 22 gol. Dovette passare un quinquennio per trovare l’erede di Monti che fu individuato in un giocatore nato a Torino nel 1921 che giocava in attacco, ma che l’allenatore juventino Felice Borel reinventò difensore, centromediano marcatore in grado di far ripartire l’azione impostandola con lanci lunghi e precisi: il suo nome CARLO PAROLA.

Quando la Juventus lo mise sotto contratto lavorava in Fiat: con la ‘signora’ del calcio italiano ha disputato 334 partite segnando 10 gol. L’anno del ritiro, stagione 1954-55, collezionò 7 presenze con la Lazio, della quale la stagione successiva divenne vice-allenatore. Con la nazionale 10 presenze, di cui quella importantissima della Coppa Rimet del 1950 in Brasile - dal 1938 fino al 1950, a causa della seconda guerra mondiale, non venne disputato il torneo e nel 1950 il Brasile, quale paese organizzatore, e l’Italia, quale campione in carica, furono ammessi di diritto ai quattro gironi eliminatori finali - in cui l’Italia perdendo con la Svezia 3-2, nonostante la vittoria successiva per 2-0 con il Paraguay, fu eliminata.

Carlo Parola aveva il 15 gennaio 1950, nello stadio progettato e realizzato venti anni prima dall’ingegnere architetto Pier Luigi Nervi (dal 1991 dedicato al famoso presidente FIGC Artemio Franchi), effettuato un movimento atletico sportivo non usuale per quei tempi, ma che in seguito sarà ‘apostrofato’ come ‘rovesciata volante’.

La partita era Fiorentina-Juventus e terminò 0-0: a dieci minuti dalla fine il giocatore ‘viola’ Pandolfini era libero in aria di rigore in attesa di un pallone che doveva solo depositare in rete, la palla viaggiava in alto e l’ultimo difensore juventino Carlo Parola era impossibilitato dalla posizione ad intervenire. Il genio italiano entra in atto e il centromediano juventino s’inventa’ una spettacolare, scenografica, grandiosa, magnifica, eccezionale, in seguito diventata mitica, bicicletta volante: la rovesciata del secolo. Leggenda veritiera vuole che il noto fotografo Corrado Banchi, investito da un urgente bisogno ‘idraulico’, si servì di una buca della pista d’atletica (quella dei tremila siepi) per liberarsi del carico e riuscì ad immortalare dal basso l’elegante intervento che amplificò la potenza, il vigore, l’energia, la vitalità e la prestanza del gesto, dando risalto alla perfetta coordinazione di Carlo Parola. La mia generazione, quella dei ragazzi del ’68, era legata ai ‘panini’ perché la vita era migliore fra due pezzi di pane fragrante, ma Parola è andato oltre perché i fratelli di Modena … Panini acquistarono la foto per tremila lire e in seguito decisero di farne la copertina del loro album di figurine. Ricordo perfettamente che la foto era stupenda, ma io non ho mai ‘amato’ la maglia juventina. Anni dopo, forse nel ’70, quando acquistavo le figurine per l’album di mio fratello Piero, più piccolo di 10 anni, notai che la copertina aveva la foto di Parola con i calzoncini bianchi e la maglia rossa (i colori del Bari … troppa grazia!), ma completava il tutto il colore dei calzettoni di un giallo-nero troppo appariscente. In seguito appresi che era stata opera di un collaboratore della Panini, un artista di nome Vaccari, a rendere quella rovesciata immortale con colori che non ‘offendevano’ nessuno ed esaltavano tutti.

Quando l’imprevisto, la combinazione, la coincidenza, il caso diventa fatalità: Pandolfini, il protagonista testimone involontario dell’acrobazia di Parola, mesi dopo, fece parte della rosa dei calciatori italiani convocati per il mondiale del 1950, in cui vi era proprio l’atleta della rovesciata volante. Parola giocò la partita persa per 3-2 con la Svezia che, in pratica, fu determinante per il ritorno a casa, mentre Pandolfini scese in campo nella vittoriosa partita vinta per 2-0 con il Paraguay e segnò anche il secondo gol (Correttezza d’informazione richiede di precisare che quest’ultima partita vittoriosa si giocò a qualificazione già decisa in favore della Svezia che, tre giorni prima, pareggiando 2-2 con il Paraguay si era già assicurato il passaggio del turno; infatti la classifica del nostro girone fu: Svezia 3 punti, Italia 2, Paraguay 1).

Parola tra il 1959 e il 1962 come allenatore ha vinto con la Juventus due scudetti e due Coppe Italia, poi perso l’amico Giampiero Boniperti ritiratosi dal calcio giocato, non riuscì a contenere le ‘stravaganze’ di quel difficile atleta di nome Omar Sivori e fu costretto ad andare via. Ha allenato il Prato, il Livorno e il Novara, dove contribuì a far decollare la carriera di Zaccarelli, giocatore che ha indossato per oltre 400 volte la maglia granata e vinto lo scudetto con il Torino, nel 1976, in una formazione che annoverava Castellini, Patrizio e Claudio Sala, Pecci, Graziani e Pulici. Boniperti, da presidente della Juventus, lo rivolle come allenatore nel 1974, ma era una squadra in cui ‘abbondavano’ individualità caratteriali difficili da gestire: Furino, Bettega, Capello ed altri, per cui l’avventura durò poco. Parola fu l’unico italiano a prendere parte, nel 1947, alla sfida tra il Regno Unito e Resto d’Europa. Secondo il famoso scrittore e giornalista Arpino disputò una buona partita anche se gli europei persero 6-1 e il nostro fu artefice di una sfortunata autorete.

Nel secolo scorso il valente giornalista Aurelio Papandrea mi omaggiò di un pallone firmato Carlo Parola ringraziandomi di aver gestito la sua breve assenza nella confezione del giornale da lui diretto: prodotto consegnato puntualmente alla ditta Lobuono che curava la distribuzione della carta stampata. Non certo perché Parola ‘juventino’, regalai subito il pallone a chi lo ambiva con uno sguardo implorante, ma a distanza di tempo devo ammettere che quel pallone Aurelio lo aveva ricevuto da un bravissimo collega un po’ altezzoso che raramente veniva in azienda, ma quando lo faceva… non passava inosservato.

Il suo soprannome, firmato Nicola Fanelli, era ‘pagghiùse’. Una volta, questa nota firma nazionale, mi chiese la cortesia di riscontrare le bozze del suo articolo, dato che godevo della nomea di ‘infallibile’. Parlandoci lo trovai affabile, quasi ‘schivo’.

Quando riferii la cosa a Papandrea, la sua risposta mi gelò: “Gianni a te basta una ‘parola’ per andare in tilt”. Cercai conforto nello sguardo di Beppe Lopez, seduto ad una scrivania in pensosa contemplazione, e non potetti fare a meno di pensare ad Ovidio: “Spesso la semplice e immediata espressione del viso vale più di tante inutili … parole”.

Carlo Parola è morto a Torino nel 2000, dimenticato da molti, in non eccelse condizioni economiche. A questo punto non mi resta che: “Sapendo, taci”.