Renato Caruso: ''Nei momenti morti mi rifugio in librerie e biblioteche''
MILANO - Il chitarrista e compositore Renato Caruso, dopo l'apertura del concerto di Eugenio Finardi al Castello Sforzesco di Milano, continua ad emozionare il suo pubblico.
Per l’occasione del concerto di Finardi, Renato Caruso ha eseguito alcuni brani del suo repertorio, tra cui “Grazie Turing”, “Thanks Galilei” e “Pitagora Pensaci Tu”. Il 12 aprile del 2024 è uscito il suo disco dal titolo “La Teoria del Big Chord'', progetto discografico dominato da un suono artificiale, risultato della sperimentazione analogica, mediante Commodore.
Renato, aprire per Eugenio Finardi non è solo un onore, ma anche un incastro musicale quasi “pitagorico”. In che modo vi sentite affini sul piano teorico?
Sicuramente anche lui, come me, è un “pitagorico”: già il fatto di scegliere titoli come Bernoulli o Onde di probabilità è un segnale. In entrambi c’è la stessa convinzione che la scienza e la musica siano due facce della stessa medaglia: la matematica dà struttura al suono e il suono illumina la matematica. Per questo, quando ho visto il suo repertorio, ho pensato: “Ecco, c’è un linguaggio comune che parla di armonie numeriche e di emozioni calibrate.”
Nel tuo lavoro si percepisce un filo costante tra scienza e musica. Cosa significa per te “Relativismo Musicale”?
Il “Relativismo Musicale” è l’idea che un brano cambi completamente in base al contesto temporale e personale di chi lo ascolta. Suonare un pezzo alle 20:00 non è la stessa cosa che suonarlo alle 21:00: l’umore, la luce, persino la respirazione di chi ascolta varia. È un omaggio alla relatività di Einstein applicata all’ascolto: tempo, percezione e musica sono un unico sistema dinamico. Un’armonia che funziona a un’ora potrebbe sembrare stonata un’ora dopo, e viceversa.
Hai scelto di sperimentare con l’analogico nel tuo ultimo album, “La Teoria del Big Chord”, usando addirittura il Commodore. Che suono cercavi?
Volevo catturare quella patina “retrò-digitale” degli anni Ottanta: il crunch dei bit, la grazia imperfetta di un chip sonoro. Mio fratello mi aveva regalato un Commodore 64 quando ero studente di informatica, e da allora quei bleeps mi sono rimasti nel DNA. Ho programmato in Visual Basic alcuni preset, poi li ho incanalati in un plugin che emula i circuiti originali. Il risultato è uno spettro sonoro che va dal caldo analogico al freddo calcolo di un oscillatore a 8 bit.
Nei tuoi dischi non c’è solo tecnica: si sente una visione concettuale molto forte. Da dove nasce questa urgenza di legare musica, filosofia e tecnologia?
Per me sono la stessa cosa: musica, filosofia, matematica e tecnologia sono linguaggi differenti per descrivere la stessa meraviglia. Fin da piccolo divoravo libri di teoria, testi di filosofia e articoli di fisica, senza distinguere troppo. Col tempo ho capito che ogni composizione poteva essere un piccolo saggio: la chitarra diventa penna, la traccia audio diventa argomentazione. È un’urgenza innata: ogni idea scientifica o filosofica chiede di essere tradotta in suono.
Come si costruisce un live set per un’occasione così importante? Come hai selezionato i brani da suonare prima di Finardi?
Ho pensato a una mini-antologia “scientifica”: porto sul palco la Loop Station e infilo tre pezzi–chiave che racchiudono la mia visione. Parto con Pitagora, pensaci tu, un omaggio alle radici pitagoriche; poi Thanks Guy Lay (un gioco di parole con Galilei) per il lato sperimentale; e chiudo con Grazie Turing, un tributo all’inventore dell’informatica. Tre tappe, tre universi in pochi minuti, per introdurre il pubblico a un ascolto diverso.
Ci racconti il tuo approccio alla chitarra oggi? Cosa è cambiato dai tempi di “ARAM” a oggi?
All’epoca di ARAM ero soprattutto un chitarrista acustico alla ricerca di virtuosismi e timbri naturali. Oggi la mia chitarra è un’entità ibrida: classica, elettrica, collegata a loop, synth e algoritmi sonori. Ho spostato il focus dalla pura esecuzione tecnica alla costruzione di paesaggi sonori: ogni corda è un’antenna, ogni effetto un ponte verso mondi nuovi.
La tua attività spazia tra composizione, insegnamento, pubblicazioni, esperienze live e digitali. Cosa ti tiene davvero vivo come musicista?
La curiosità senza freni. Nei momenti morti mi rifugio in librerie e biblioteche, studio nuovi approcci, leggo di fisica, letteratura, neuroscienze… ogni spunto diventa carburante per la prossima idea. Ho sempre la sensazione di sapere troppo poco, e questa “ignoranza produttiva” mi spinge a esplorare senza sosta. È un problema? Forse. Ma è anche ciò che mi salva dalla routine e mi tiene sempre in bilico tra musica e scoperta.
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