Il tempo lento: educare all’attesa in una società impaziente
La società odierna appare priva di pause rigenerative: sembra aver smarrito il ritmo del respiro. L’orologio domina le nostre giornate, l’efficienza misura il nostro valore e la rapidità definisce ciò che merita di esistere. Siamo abituati a credere che solo ciò che accelera e si muove in fretta sia vivo ed abbia valore. Così i ritardi ci irritano, le attese ci consumano e la lentezza ci mette a disagio. È come se ogni secondo non ottimizzato fosse uno spreco irreparabile. Eppure non siamo nati veloci: la lentezza è la misura originaria del corpo, l’andamento naturale del pensiero, il ritmo di ogni trasformazione autentica.
Nessun cambiamento è immediato e nessuna crescita esiste senza attese. Viviamo però in un ecosistema temporale ostile alla profondità, dentro il quale aggiornamenti continui, percorsi compressi e risposte istantanee richiedono efficienza a ogni costo, e dove ogni lentezza viene letta come un difetto da correggere. Se non acceleriamo, restiamo indietro e così, per paura di finire ai margini, corriamo sempre- scrive il filosofo Hartmut Rosa, in Accelerazione e alienazione (2015), sostenendo come la velocità non sia più un lusso ma un obbligo sistemico.
La lentezza, al contrario, non è inerzia bensì una pratica interiore, un modo di abitare il tempo e non soltanto di attraversarlo, dividendolo in frammenti di utilità. È l’unico ritmo in cui una relazione può crescere, in cui un’idea può maturare, in cui un dolore può trasformarsi in qualcosa di diverso da ciò che era. Se oggi sembra così difficile rallentare è perché l’attesa svela ciò che l’iperattività nasconde: la nostra fragilità. La velocità ci tiene spesso lontani da noi stessi: correre è un modo elegante per non sentire. Invece la lentezza aumenta la sensibilità, ci costringe ad accorgerci delle ferite, delle possibilità, degli altri. Il tempo lento permette così alla vita di toccarci. Ed è anche una forma di responsabilità, un modo di sottrarci a una logica di consumo: se vediamo le persone solo per ciò che fanno, e quanto in fretta lo fanno, smettiamo di vederle davvero. L’educazione ci ricorda che ogni crescita sana ha bisogno di una geografia temporale protetta: senza fretta e senza giudizi immediati.
La lentezza, al contrario, non è inerzia bensì una pratica interiore, un modo di abitare il tempo e non soltanto di attraversarlo, dividendolo in frammenti di utilità. È l’unico ritmo in cui una relazione può crescere, in cui un’idea può maturare, in cui un dolore può trasformarsi in qualcosa di diverso da ciò che era. Se oggi sembra così difficile rallentare è perché l’attesa svela ciò che l’iperattività nasconde: la nostra fragilità. La velocità ci tiene spesso lontani da noi stessi: correre è un modo elegante per non sentire. Invece la lentezza aumenta la sensibilità, ci costringe ad accorgerci delle ferite, delle possibilità, degli altri. Il tempo lento permette così alla vita di toccarci. Ed è anche una forma di responsabilità, un modo di sottrarci a una logica di consumo: se vediamo le persone solo per ciò che fanno, e quanto in fretta lo fanno, smettiamo di vederle davvero. L’educazione ci ricorda che ogni crescita sana ha bisogno di una geografia temporale protetta: senza fretta e senza giudizi immediati.
L’impazienza è un anestetico, invece educare alla lentezza è un atto controcorrente, significa difendere il diritto alla gradualità poiché i processi educativi non possono essere compressi. Attendere non è perder tempo: è generare lo spazio perché qualcosa accada. La lentezza è la condizione per la risonanza, direbbe ancora Rosa: per entrare davvero in relazione con il mondo dobbiamo permettere alle cose, e alle persone,di risponderci (2019). Ciò che conta non è accumulare esperienze ma lasciarsi trasformare da alcune. È la qualità del tempo, non la quantità, a renderci vivi.
Non c’è intimità alcuna che nasca in velocità; non c’è amicizia, fiducia, alleanza che possa essere programmata. Le relazioni, quelle vere, chiedono tempo gratuito, un tempo lento che rende l’altro possibile: ascoltato, riconosciuto, non ridotto a funzione. Le relazioni che ci salvano non sono mai quelle vissute di fretta.
La cultura dell’istantaneo contagia anche lo sguardo. Consumiamo immagini con la stessa rapidità con cui scorriamo i social, ma osservare davvero richiede lentezza. Bill Viola con i suoi video lenti e impercettibili, dove ogni gesto ha un tempo proprio, ci educa a un vedere che non è consumo ma trasformazione silenziosa; ci educa a respirare davanti alle immagini. Anche Marina Abramović, nella performance The Artist Is Present, ha reso evidente che la presenza condivisa, silenziosa e lenta, può essere rivoluzionaria.
La lentezza è una forma estetica ma anche una forma politica. La lentezza è pedagogica: insegna a non avere subito, a non capire subito tutto, a non fuggire da ciò che ci inquieta. È riconoscere di essere presenti nel qui e ora, e non lasciarsi travolgere e velocizzare. Rallentare oggi fa paura perché ci restituisce a noi stessi. Il tempo lento invece scardina le distrazioni e ci costringe a incontrare ciò che la velocità nasconde: fragilità, desideri dimenticati, domande che non sappiamo formulare. Ed è proprio lì che si custodisce la crescita: non nelle prestazioni veloci ma nelle trasformazioni lente, poiché non serve arrivare primi, se per strada perdiamo il senso del cammino. Nell’attuale contesto sociale dove tutto corre, il vero atto sovversivo è fermarsi e rivendicare un tempo che appartenga al nostro passo, ridando alla vita il ritmo del respiro. Tutto ciò che vale davvero richiede tempo: la fiducia, la cura, l’arte, le relazioni, noi stessi. E la lentezza è la vita che si prende sul serio.
Articolo a cura di Veronica Di Mauro:
Non c’è intimità alcuna che nasca in velocità; non c’è amicizia, fiducia, alleanza che possa essere programmata. Le relazioni, quelle vere, chiedono tempo gratuito, un tempo lento che rende l’altro possibile: ascoltato, riconosciuto, non ridotto a funzione. Le relazioni che ci salvano non sono mai quelle vissute di fretta.
La cultura dell’istantaneo contagia anche lo sguardo. Consumiamo immagini con la stessa rapidità con cui scorriamo i social, ma osservare davvero richiede lentezza. Bill Viola con i suoi video lenti e impercettibili, dove ogni gesto ha un tempo proprio, ci educa a un vedere che non è consumo ma trasformazione silenziosa; ci educa a respirare davanti alle immagini. Anche Marina Abramović, nella performance The Artist Is Present, ha reso evidente che la presenza condivisa, silenziosa e lenta, può essere rivoluzionaria.
La lentezza è una forma estetica ma anche una forma politica. La lentezza è pedagogica: insegna a non avere subito, a non capire subito tutto, a non fuggire da ciò che ci inquieta. È riconoscere di essere presenti nel qui e ora, e non lasciarsi travolgere e velocizzare. Rallentare oggi fa paura perché ci restituisce a noi stessi. Il tempo lento invece scardina le distrazioni e ci costringe a incontrare ciò che la velocità nasconde: fragilità, desideri dimenticati, domande che non sappiamo formulare. Ed è proprio lì che si custodisce la crescita: non nelle prestazioni veloci ma nelle trasformazioni lente, poiché non serve arrivare primi, se per strada perdiamo il senso del cammino. Nell’attuale contesto sociale dove tutto corre, il vero atto sovversivo è fermarsi e rivendicare un tempo che appartenga al nostro passo, ridando alla vita il ritmo del respiro. Tutto ciò che vale davvero richiede tempo: la fiducia, la cura, l’arte, le relazioni, noi stessi. E la lentezza è la vita che si prende sul serio.
Articolo a cura di Veronica Di Mauro:
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Racconti
