“Il Torchio e le lettere” di Pietro Sisto

di LIVALCA — “La lingua italiana è una lingua di carattere” è una perentoria affermazione che difficilmente trova riscontro in un significato univoco, dato che può essere interpretata in vari modi: peculiarità di cui la nostra lingua abbonda.  Carattere è un termine che può essere ‘calzato’ all’antropologia fisica, alla psicologia, alla letteratura e all’arte grafica. Il volume curato dall’insigne studioso prof. Pietro Sisto dal titolo “IL TORCHIO E LE LETTERE” ci parla proprio di tipografia, ossia di arte grafica. L’elegante testo, pubblicato nella collana ‘Incroci e percorsi di lingue e letterature’ diretta da Grazia Distaso, Pasquale Guaragnella e Giovanna Scianatico, vede la luce per i tipi dela casa editrice Progedit, la creatura nata da una felice intuizione di Gino Dato.

La folgorazione di rappresentare graficamente ogni suono emesso dalla voce degli umani fu dei Fenici (si deve a loro un alfabeto di ventidue segni consonantici, non più di tipo cuneiforme), ma la gloria andò giustamente al tipografo tedesco Johann Gutenberg, l’inventore della stampa a caratteri mobili.

Quel che non tutti sanno è che Gutenberg, uomo molto intraprendente, avviò a Magonza, sua città natale, un’attività come orefice prima della sua eccezionale invenzione. Per mettere in pratica le tecniche di stampa da lui ideate si trasferì a Strasburgo (1443), ma le cose non andarono benissimo e l’anno successivo ritornò a Magonza ed ebbe l’abilità di trovarsi un socio molto facoltoso e nel 1450 aprì l’officina da cui partì l’invenzione che tutt’oggi si chiama ‘signori è la stampa’ (1455 per la statistica). Per amore di verità - anche per consolare i tanti che ai nostri giorni vedono affondare le loro aspirazioni in un pantano di burocrazia che non è eresia definire vessatoria - bisogna dire che l’attività, nonostante il ricco ‘socio-sponsor’, ebbe alterne fortune, mentre il posto di Gutenberg nella storia resterà imperituro.

Penso di aver abbastanza le mani nell’inchiostro per poter affermare che l’orefice e il tipografo molto hanno in comune: precisione, esattezza, giustezza, perfezione, cui bisogna aggiungere diligenza, scrupolosità, puntualità, meticolosità, cura e tanta attenzione.

Noi avevamo un torchio-tirabozze stupendo, di cui era grande estimatore il prof. Fabrizio Canfora, che serviva a stampare con grande precisione bozze per pagine di libri.

Il professore Canfora per una stagione ha avuto rapporti lavorativi con il sottoscritto. I ricordi sono vivi e sbiaditi al tempo stesso: lui curava i testi per una pubblicazione di un partito politico. Nel lavoro vi erano alcune parole greche che venivano aggiunte nella riga meccanica, che era prodotta da una macchina chiamata linotype, con lettere greche composte a mano da qualcuno che conoscesse la lingua (La linotype fu inventata a Baltimora nel 1886 dall’orologiaio - il caso quasi sempre cronometra ogni imprecisione! - wurttemberghese Ottmar Mergenthaler, di origini tedesche naturalizzato statunitense). Trattandosi di parole singole, una tantum, era tempo sprecato far cambiare ‘magazzino’ per far ricorso alle lettere dell’alfabeto richiesto, inoltre ci voleva un operatore linotipista che conoscesse il greco. Dal momento che frequentavo l’Orazio Flacco quello era compito mio: la qualcosa mi dava il pretesto per rendermi utile. Io conoscevo il prof. Canfora, perché era vice-preside ai tempi del preside Pazienza, ma non era mio insegnante. Il professor Canfora padroneggiava il nome dei caratteri tipografici: Futura, Helvetica, Garamond, Bodoni, Times ecc. e si trovava a proprio agio nel parlare di tondo, corsivo, neretto, giustezza tipografica, interlinea e spaziatura: era Maestro anche in questo.

Torniamo al libro di Sisto. Una gran parte del testo del docente di Bibliografia e di Biblioteconomia dell’Università di Bari è stato già pubblicato in altri lavori e per questo con grande zelo vengono ringraziati correttamente gli editori Congedo, Manni e Schena (Vi è stato il periodo in cui si ringraziavano gli editori …senza che fossero stati interpellati!).

Il libro è una miniera di notizie, che alimenteranno in seguito la foresta della memoria da cui dovranno attingere le future generazioni, per cui è necessario che sia scrupoloso nel gestire i vari passaggi epocali affinché onori, oneri e meriti vadano ai diretti interessati.

A volte le passioni, lecite nella loro ingenuità, e gli interessi, da sempre cattivi consiglieri, fanno la Storia più che la pura realtà – Pino Aprile lo sta dimostrando ampiamente – e si corre il rischio di privare i legittimi proprietari di quella verità che è indispensabile per raccontare la Storia vera.

Posso testimoniare che la ristampa anastatica del primo volume stampato a Bari nel 1535 “Le operette del Parthenopeo Suauio in uary tempi et per diuersi subietti composte, et da Siluan  Flammineo insiemi raccolte, et alla amorosa et moral sua Calamita intitulate” si deve  alla volontà di Mario Cavalli e la sua Levante. Vito Antonio Melchiorre fu invitato da Cavalli a scrivere una breve introduzione, in cui diede non poche risposte e riferimenti cui hanno attinto in seguito vari studiosi. L’operazione avvenne nel 1982 e vi fu nel gennaio dell’anno successivo presso l’Oriente una presentazione che vide intervenire il Ministro dei Beni Culturali dell’epoca avv. Nicola Vernola; la relazione fu tenuta da Cosimo Damiano Fonseca, moderatore Michele Campione. Chiaramente solo i testimoni sono in grado di raccontare le verità e anche loro possono, a volte, avvalorare quello che Longfellow chiamava un difetto endemico: “Un po’ di obiettività carente è mescolata ad ogni verità”. Il sottoscritto, a nome dell’azienda che rappresenta, può tranquillamente affermare, senza nessuna possibilità di essere smentito, di aver sempre operato perché fosse dato a Cesare quello che era di Cesare.

Una parte davvero interessante del libro è quella dedicata alla casa editrice HUMANITAS di Piero Delfino Pesce e le notizie al riguardo sono tutte interessanti e precise, legittimate dalle parole di Tommaso Fiore: “Da Mola vennero i fratelli Pesce, repubblicani per educazione familiare, e Pier Delfino fu il più gentile fra i fiori del sapere”.

Fa sorridere, alla luce delle eccezionali potenzialità odierne del settore grafico pugliese, quello che scriveva Benedetto Croce a Giovanni Laterza nel 1905: “…É una stampa difficile, che deve riuscire precisissima. Se non può il Vecchi, non credo che vi sia altra tipografia adatta nell’Italia meridionale e bisognerebbe pensare all’arte della Stampa di Firenze…”. A difesa della categoria e delle proprie ragioni mi piace riportare quello che diceva ancora Croce di Vecchi, ossia si lamentava: “…delle ‘esageratissime’ pretese economiche del Vecchi e del suo andar lento…”.  Vecchi morì qualche anno dopo e lasciò uno stabilimento non in floride condizioni economiche che testimoniavano come non fossero avvalorate da basi tecniche le affermazioni sull’esosità pronunciate da Croce. Nessun deficit lasciato comunque potrà offuscare il capitale morale che ogni azienda, qualsiasi azienda, accumula negli anni (Natura non facit saltus).  É risaputo che l’agguerrita concorrenza fra le aziende grafiche del settore, dal 1970 in poi, ha reso minimi i margini operativi e il pretendere la stampa di un libro in pochi giorni non giovavano alla causa del lavoro a regola d’arte.

Sempre Croce in una lettera all’editore Giovanni Laterza nel 1906, dopo la morte di Vecchi, scriveva con una prosa senza riguardi: “…non vi dispiacete, ma i tre frontespizi che mi avete mandati sono uno più brutto dell’altro. Caratteri tozzi, di cattivo gusto, e discordanti. Ho conservato i tre mostriciattoli perché, la prima volta che verrete a Napoli, ve li commenterò a voce…”.   Sontuosa nella sua cruda verità la risposta del tenace editore barese: “Nel frontespizio si usarono caratteri orribili, come dice Lei, per evitare quella specie di croce papale che vien fuori con caratteri affini al testo; in ogni modo vedremo di arrangiarci lo stesso senza ricorrere al Vecchi, che non è vivo, ma è…”.  Quante volte mio padre ha spiegato ai vari professori di turno che non era tutto oro quello che appariva a prima vista e che Virgilio ha sintetizzato in “Nimium ne crede colori”.

Ricordo che in quegli anni in una riunione degli editori dell’epoca, in casa Laterza e alla presenza di Vito, vi fu chi fece notare a Vito Macinagrossa che non era stato ‘elegante’ nel far stampare un testo fuori regione.

La difesa del ‘sanguigno’ editore fu appassionata: peccato che mostrò un volume dicendo questo “è difficile realizzarlo da noi” e io fui costretto a far notare, ai non molti presenti, che era stato confezionato nell’azienda di uno dei presenti con buona pace delle affermazioni dell’Adriatica editrice. Dialogo sempre vivo, ma nella più totale osservanza di stima che esisteva a prescindere dagli interessi non combacianti.

Vito Laterza, Bracciodieta, Schena, Ceglie, Coga, Macinagrossa e Mario Adda, presenti in quella circostanza, sono andati a riposare: ci siamo io e Giuseppe Laterza che eravamo i più giovani, con la via di mezzo rappresentata da Nicola Cacucci e Diego De Donato. Il mio ricordo chiede perdono ai presenti non citati, ma è impossibile rammentare tutto e non si tratta di ‘oblio’ ma di semplice ‘appassimento’ anagrafico per usare un eufemismo.

Quanti ricordi può innestare un libro di carta e quanto aiuto può dare a considerare gli anni passati un periodo comunque vissuto.

La corposa e sostanziosa opera di Sisto merita una lettura lenta e riflessiva che diventa studio per coloro che, più che preposti ai lavori, sono a tutti gli effetti protagonisti di una stagione in cui ‘imparare’ era il primo passo per vivere e poi si provava a ‘comunicare’. Quella scienza-cultura che, grazie all’esperienza accumulata in lustri in cui ogni confine avvicinato appariva meraviglioso, non dimenticava mai di avere una coscienza ed operava di conseguenza.

Voglio assicurare il prof. Sisto, e l’amico di una vita Nicola Roncone, le mie divagazioni, non essendo Paganini, sfoceranno in un bis che sarà il più fedele possibile al testo, evitando quei ‘capricci’ cui ho fatto ricorso e che spero non vengano interpretati come voler desiderare qualcosa di utopistico, ma, grati di quello che si ha, adoperarsi perché il meglio e il bello possano essere bramati e raggiunti senza superare …i limiti di ‘velocità’.

Un encomio particolare va al Consiglio d’Amministrazione dell’Università degli studi di Bari Aldo Moro che ha reso possibile la pubblicazione con un contributo: le nostre tanto bistrattate Istituzioni quando rispondono presente ci confermano che, comunque, un futuro ci sarà e non serve TORCHI(O)are il tempo perché al pari del fiume non risale mai alla sorgente.

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