Welfare: "Così saranno le pensioni del futuro". Parla l’economista Marcello Morciano

di FRANCESCO GRECO. NORWICH (Gran Bretagna) - Pechino, Parigi,  Venezia: novello Marco Polo, c’è chi gira il mondo per convegni, simposi, dibattiti per spiegare ai decisori politici e ai CEO delle imprese le sfide del XXI secolo dei sistemi di protezione sociale (pensioni e politiche per la non-autosufficienza in primis), al tempo della globalizzazione e progressivo invecchiamento della popolazione, ma anche di ridimensionamento dell’azione pubblica che in tema di lavoro ha formattato diritti elementari e precarizzato il sistema.
 
Da riforme che inaspriscono considerevolmente i requisiti per il pensionamento (come la famigerata riforma Monti-Fornero, 2011), a timidi e talvolta inefficaci interventi per proteggere i nostri anziani dai costi esorbitanti legati alla disabilità, è uno storytelling delicato, che appassiona popoli, governi, èlite economico-finanziarie, economisti, esperti di Welfare.

Oltre un miliardo di persone, i cinesi, sono alla ricerca di un sistema adeguato, equo e sostenibile, in un momento di boom economico, di Pil sempre in crescita.

Potrebbe essere quello proposto da un ragazzo italiano esperto di Welfare, pugliese (di Alessano, nel Leccese), che vive in Gran Bretagna, a Norwich: si chiama Marcello Morciano. L’ha illustrato in un seguitissimo brainstorming giorni fa a Pechino, di fronte ai delegati del Ministero delle Finanze Cinese. Tornerà a gennaio 2018 per spiegare ulteriori integrazioni mentre è appena stato a Parigi e a Venezia per discutere di riforme delle politiche per la non-autosufficienza in Europa.     
 
Chi è Morciano? Laurea con lode in Economia a Modena, dottorato a Bologna, un master e un nuovo dottorato in Inghilterra, 39 anni, sposato, due bambini, Alessandro 5 anni e Jacopo due mesi, figlio di emigranti, Donata (di Montesardo) e Antonio, ha un fratello più grande, Rocco, importante elemento di sostegno morale alle scelte del fratello minore.
 
Un genio precoce, si direbbe: quando studiava al Commerciale “Gaetano Salvemini” di Alessano, le aziende locali lo chiamavano, lo ingaggiavano, lo pagavano bene. Poi la scelta di iscriversi all’università extra moenia, grazie a una borsa di studio della regione Emilia Romagna. Da lì si specializza nello studio dell’impatto delle politiche pubbliche su povertà e distribuzione del benessere economico, tra cui un lavoro comparativo sugli effetti della tassazione locale nei comuni di Puglia ed Emilia Romagna. Lavorando al Centro di Analisi delle Politiche Pubbliche (CAPP) a Modena, si iscrive a un dottorato all’Università di Bologna dove comincia un percorso che lo porta allo studio degli effetti distributivi del sistema pensionistico e della non-autosufficienza in Italia.

Varie pubblicazioni e collaborazioni con Regioni, Comuni e Ministeri. Vince un premio come miglior ricercatore italiano sui temi pensionistici. Poi una borsa di studio –“bollenti spiriti”- della Regione Puglia gli permette di perfezionare i suoi studi in Inghilterra.

Non ha ancora terminato il master in economia applicata che già una Università inglese gli offre un posto da ricercatore universitario, che accetta. Comincia così il suo percorso lavorativo in Inghilterra, lavorando su progetti finanziati dalla Commissione Europea e vari ministeri.

Lavora per una commissione per riformare il programma di non-autosufficienza del Regno Unito. Viene persino chiamato nella Camera dei Lords per presentare i suoi risultati. Ha appena avuto un colloquio col Ministero della Salute a Londra, con cui ha parlato dello stato del sistema di cura inglese a favore di anziani disabili.

Insomma, un’eccellenza di Puglia.

DOMANDA: Dottore Morciano, qual è il segreto del suo successo?

RISPOSTA: “Non credo ci sia una formula magica da imparare e seguire. Nel mio caso è stato un mix di curiosità, caparbietà, sacrificio e fortuna. Sin da piccolo, sono sempre stato interessato a conoscere il perchè delle cose e non mi piacevano i grandi che mi dicevano cosa fare senza darmi ulteriori spiegazioni. Ricordo le importanti chiavi di lettura fornite pazientemente da un mio zio in particolare, Tommaso, su legalità, giustizia e stato sociale. Ero insomma una pena per alcuni miei parenti perchè li interrogavo su tutto, anche temi forse non molto attinenti ai bambini. Forse anche per zittirmi, mi affidavano dei lavoretti manuali da completare: ricordo con piacere nonna Lucia e le domeniche passate a casa sua a fargli dei lavori in giardino e non solo. Io sbagliavo, lei si spazientiva, ma intanto imparavo!
Mia mamma e mio fratello mi hanno insegnato che niente nella vita è dovuto e devi far sacrifici per ottenere risultati. Mio padre ha dovuto lasciare la sua amata famiglia per lavorare all’estero e consentirci di vivere una vita dignitosa. Quale sacrificio più grande di abdicare alla tua vita per dare un futuro migliore ai tuoi cari? E mi ripeteva che l’unico modo di sfuggire alla trappola della povertà è quello di studiare. Così ho capito che quello era il mio compito e provavo piacere a ricompensare la sua abdicazione con i risultati che ottenevo. Poi la fortuna! La fortuna di aver avuto docenti che mi hanno inculcato la “cultura del dubbio”, non fermarsi alle apparenze e andare sempre in fondo alle cose. La fortuna di vivere (o ricercare) contesti dove, nonostante le mille difficoltà e ingessature, si premia il merito e non la raccomandazione. La fortuna di aver avuto una famiglia che, nonostante le condizioni di deprivazione in cui viveva, mi ha insegnato a guardare il mondo a testa alta e non cercare soluzioni facili...”. 

D. Le sue ricerche sugli effetti dei tributi locali su povertà e disuguaglianza sono state utilizzate dal Comune di Modena: in che modo?

R. “Al CAPP mi insegnarono la necessità di fornire valutazioni di policy basate su evidenze empiriche, utilizzando dati amministrativi e dati raccolti intervistando campioni rappresentativi della popolazione residente. Rimasi affascinato nel constatare che i decisori politici locali formulavano le loro politiche tenendo in seria considerazione i risultati delle analisi commissionate. Se finanziare una data politica pubblica tramite tassazione sulla ricchezza immobiliare (l’allora ICI) o tramite addizionale, come tarare la tassa sui rifiuti etc., erano domande a cui fornivamo risposte mediante complessi modelli che simulavano l’impatto delle diverse ipotesi di riforma sulle famiglie in termini di variazione del loro reddito disponibile, di incidenza della povertà e di effetti redistributivi (l’imposta gravava di più sulle famiglie più ricche o sui ceti meno abbienti?).
A quel tempo, producemmo anche delle mappe locali di povertà per definire piani di zona comunali che identificassero e fornissero soluzioni a situazioni critiche presenti nelle varie circoscrizioni. Tali modelli, ora aggiornati e molto più rifiniti, credo siano ancora in uso...”.           

D. Le sue intuizioni riguardano le pensioni sociali, minime, quelle più diffuse: come mai? Il passaggio al contributivo creerà ulteriore povertà? 

R. “Il nostro sistema pensionistico ha subìto un intenso processo di riforma negli ultimi decenni. L’analisi economica ha privilegiato il tema della sostenibilità finanziaria del sistema: l’introduzione del principio contributivo ha innestato nel sistema pensionistico italiano una stretta logica assicurativa, fornendo una pensione molto più in linea con i contributi versati durante la fase lavorativa.
Il risultato è una brusca riduzione dei trattamenti pensionistici e un problema di adeguatezza della futura rata pensionistica, soprattutto per gli attuali giovani, donne, lavoratori part-time o con carriere lavorative discontinue, contratti precari e a bassi redditi. Insomma, per questi c’è il serio rischio che dovranno rimanere al lavoro fino a 70 anni per maturare poi una pensione che rischia di essere molto vicino al livello della pensione sociale, il trattamento minimo assicurato a tutti, anche quelli che non hanno versato contributi durante la loro vita.
E’ chiaro, quindi, che il sistema cosi com’è oggi, rischia di incentivare (e non disincentivare!) il lavoro sommerso, e di prefigurare una futura società composta da molti anziani poveri, che ricevono prestazioni assistenziali, la cui copertura potrebbe essere seriamente a rischio.
Inoltre, le restrizioni all’accesso alla pensione introdotte dalla legge Monti-Fornero portano a una cesura netta tra chi, abbiente in età lavorativa può andare in pensione anticipata e chi invece, vivendo una vita di stenti e con periodi di disoccupazione lunghi, vedrà solo in età molto avanzata la possibilità di accedere alla pensione di vecchiaia.
Se si tiene in corsiderazione anche un differenziale di aspettativa di vita (i poveri vivono di meno dei ricchi) ecco allora che il sistema rischia veramente di generare iniquità molto forti”.

D. Perché non si pensa a una riforma per dare contributi figurativi a chi non avrebbe una pensione decente, anche per smontare sul nascere prevedibili, aspri conflitti sociali? 

R. “E’ un’interessante proposta di riforma che trova molti sostenitori. Contributi figurativi di questo tipo sono presenti in molti paesi: il Regno Unito, per esempio, accredita contributi figurativi per maternità, disoccupazione e presa in carico di disabili non-autosufficienti. Credo che la ragione principale nel non vedere questo tipo di proposte farsi largo in Italia, non sia tanto legata al “pensare” la riforma ma, piuttosto, a come operazionalizzarla, in un contesto economico e occupazionale che tarda a riprendersi. Bisognerebbe infatti trovare oggi la copertura finanziaria a un programma di spesa che avrà i suoi effetti solo nel medio-lungo periodo.
Purtroppo il ciclo politico (soprattutto in Italia) non coincide con il ciclo economico e progetti di riforma di questo tipo si scontrano forse con la miopia politica che guarda alle prossime elezioni. L’obiettivo della classe politica è forse accaparrarsi voti con spesa improduttiva e facili proclami oggi piuttosto che pensare a una riforma strutturata che mira a risolvere i problemi che si manifesteranno con ragionevole certezza nel futuro”.

D. Ci spiega cosa ha proposto di preciso ai cinesi? 

R. “La Cina è un paese in forte via di espansione, con alcuni problemi che tentano di risolvere oggi, quando l’economia è in grado di assorbire eventuali programmi espansivi di spesa. Sono il secondo paese al mondo in termini di prodotto interno lordo (dopo gli Stati Uniti), ma con una forte sperequazione in termini di distribuzione del reddito: con una quota crescente di extra-ricchi, soprattutto nelle città (il numero di auto di lusso in megalogoli come Pechino e Shanghai è di gran lunga superiore al numero presente sul nostro territorio nazionale), e una gran fetta della popolazione che vive in povertà, spesso nelle zone rurali, che mendica per strada e non beneficia affatto del boom economico e della globalizzazione.
Questo gap è destinato ad acuirsi nel futuro. I cinesi stanno beneficiando di aumenti dell’aspettativa di vita molto sostenuti e già vedono il problema di una popolazione di anziani disabili che necessitano di cura, oggi fornita principalmente dai figli in maniera informale. Questo modello crea problemi nella partecipazione al mercato del lavoro dei loro figli. Inoltre, molti giovani cinesi si trasferiscono dalle zone rurali alle città per trovare lavoro, lasciando uno/due anziani soli a cui qualcuno deve badare. Insomma, una situazione molto simile a quella italiana di qualche decennio fa, in cui la giovane manodopera del Sud Italia si trasferiva al Nord o all’estero per trovare fortuna.
La differenza principale è che, al momento, il sistema di protezione sociale cinese è pressocchè inesistente, con una copertura pensionistica molto limitata nelle zone rurali e nessuna politica nazionale per la non-autosufficienza. Il loro interesse è quello di sviluppare un programma nazionale per gli anziani non-autosufficienti, prendendo spunto dai successi e dagli insuccessi delle politiche intraprese in Europa. Il mio ruolo è quello di fare una rassegna delle politiche in atto nei paesi Europei e di trarre lezioni utili per loro”.

D. Il modello che loro hanno in mente è quello tedesco: o abbiamo buone chance che sia adottato quello italiano?

R. “Esatto, i cinesi sono interessati a implementare un modello di cura di tipo tedesco, con contributi sociali versati durante la fase lavorativa per finanziare un fondo per la non-autosufficienza, da cui attingere quando anziani disabili. Ma guardano con molto l’interesse l’Italia, in particolare all’indennità di accompagnamento, una prestazione monetaria a favore dei disabili in Italia. Ma lo fanno con un interesse molto particolare. L’evidenza aggregata in Italia, infatti, mostra come la spesa per indennità di accompagnamento, che costituisce da sola il 40% circa della spesa per la non autosufficienza, sia cresciuta in maniera molto decisa nell’ultimo decennio, con differenze geografiche molto forti. Inoltre, l’importo dell’indennità in molti casi non copre interamente i costi legati alla non-autosufficienza; in altri, il disabile non è propriamente auto-sufficiente (vi ricordate il cieco siciliano sorpreso a guidare la sua vettura?). Insomma, guardano il caso italiano con un occhio critico, consci del fatto che, in fin dei conti, la società cinese non è poi molto differente da quella italiana”.

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