Roberto Campari firma per Marsilio il bel saggio “Un Olimpo di luce”

di Francesco Greco. Cos’è la bellezza? Perché da sempre ci attrae? E perché s’identifica con la virtù? “La bellezza è il simbolo del bene”, Immanuel Kant. Fa pendant concettuale un proverbio del Sud contadino: “Bella di faccia, bella di cuore”. A speculare sull’idea di “kalòs” – almeno in Occidente – cominciarono i Greci, Platone nel “Fedro”, ma già nei poemi omerici traspare e si impone quest’ansia febbricitante di sublime da possedere, per cui il corpo rappresenta un affollamento semantico. Se Elena fosse stata brutta sarebbe stata rapita? Penelope concupita dai proci fin dentro al desco famigliare? Cassandra non doveva essere una dea se si presero gioco del suo fosco presagio. Forse manco Cleopatra lo era, ma Cesare e Antonio dormirono con lei magari per ragion di Stato.

E’ la pittura rinascimentale e barocca poi che si contamina ontologicamente dell’archetipo greco-romano riscrivendo ex abrupto il modulo classicista, oggi ripreso dai blockbuster Usa. Fino al decadentismo, che sublima il concetto di bellezza separandolo da ogni forma d’interiorità, elevandolo a ossessione racchiusa dall’incubo di Dorian Gray allo specchio. Dove troviamo non solo Oscar Wilde (“La bellezza è un Genio… Non ha bisogno di spiegazione”) ma anche Proust, Baudelaire e persino Gramsci sull’Avanti! nel 1917: “Questa donna – l’attrice Lydia Borelli – è un pezzo di umanità preistorica, primordiale”.

E’ su questi postulati estetico-culturali che irrompe ai primi vagiti del Novecento il cinema “nuovo mezzo d’espressione” e l’industria delle immagini e i sogni che parla a miliardi di persone ansiose d’identificazione. In anni più recenti, la centralità dell’immagine e il suo grumo semantico è stata teorizzata da Bèla Balàzs, studioso ungherese, marxista: “Una star del cinema deve essere bella…”, Edgar Morin, che in un saggio anni ‘70 sostiene aspro che il cinema sembrava destinato a ricalcare la realtà, invece s’è messo a fabbricare sogni. Mentre lo stesso Gilles Deleuze insiste sull’importanza del primo piano per “leggere” il pensiero dell’autore.

Roberto Campari (insegna storia del cinema e critica cinematografica all’Università di Parma) firma un saggio per chi poco e niente sà del background di questa forma d’arte che pure al suo apparire non era accreditata di futuro: “Un Olimpo di luce” (La bellezza del corpo nel cinema), Marsilio, Venezia 2011, pp. 176, euro 12, ha una chiave d’accesso pedagogica per il linguaggio terso e i concetti in trasparenza, senza accademia o narcisismo. La gallery di divi è emozionante. Da Rodolfo Valentino (“fiore divelto da una terra…”) al viso della Garbo che per Roland Barthes “estrae una bellezza esistenziale da una bellezza essenziale”, dalla Dietrich: “…la sua bianchezza espone alla vergogna la luna” (il fotografo Cecil Beaton) a Clark Gable (“l’uomo più bello del mondo”, Mario Soldati). E poi Rita Hayworth (“bomba atomica”), Marilyn Monroe (“ultima dea dell’amore”, Peter Bogdanovich, “dolce angelo del sesso”, Norman Mailer), Liz Taylor (“la creatura più stupenda che abbia mai visto”, J. D. Salinger), la Lollobrigida (“figlia del sole”, G. Brunetta), la Loren (“accende i desideri di tutti gli uomini”), Mastroianni, il “foglio bianco” su cui Visconti, Fellini e altri riverseranno le loro storie d’autore. Poi la Cardinale, Delon, la Bardot, Sean Connery, Travolta, Richard Gere, ecc.

Un libro che riconcilia con l’idea di bellezza restituendola alla sua etimologia dopo che la tv-spazzatura, con i guru Costanzo e gentile signora, in questi lustri ne han fatto strame in uno stupro semantico delirante. Campari ci fa rivivere la Ekberg (per i paparazzi “bella bisteccona”) con tutti quei capelli biondi nella Fontana di Trevi e la Mangano (“La tua bellezza amara… uno splendore di perla”, Pasolini) col golfino stretto e le lunghe gambe nude nella risaia. Chiudi il libro (a tv spenta) e t’addormenti certo che la bellezza è viva e lotta insieme a noi. In tempi sciatti e volgari un raggio di sole che scalda il cuore.

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