Bif&st: "Un uomo a metà", un viaggio introspettivo alla scoperta della chiave per la sopravvivenza
di Roberta Calò. Il Bif&st apre le braccia ad una grande mente del cinema italiano, Vittorio De Seta, il quale è approdato ieri alla sala tre del Galleria con "Uomo a metà", un capolavoro del 1966 con Rosemarie Dexter, Jacques Perrin, Ilaria Occhini, Lea Padovani, Gianni Garko. Un viaggio, quello di Michele, in cui è difficile cogliere la sottile linea di confine tra introspezione e vita reale. Un giovane intellettuale perseguitato da voci, da immagini, da eventi cerca di sfuggire ai suoi fantasmi. Il regista parla per metafore e personificazioni suggerendo pochi, enigmatici, elementari dialoghi che celano in sé gli orrori di un'infanzia che torna alla ribalta. Passato, presente e futuro convivono bellicosamente in un'unica dimensione causando l'insorgere di una nevrosi. L'uomo viene allora ricoverato in una clinica e qui il protagonista intraprende il suo viaggio a ritroso passando per macchinari, per sedativi e per rievocazioni risalendo indietro nel tempo alla ricerca di quel germe da cui si è poi sviluppato il trauma di una vita. Ritmo lento e pellicola in bianco e nero trasportano lo spettatore in una dimensione senza tempo dove le perplessità di un uomo diventano spunto per interrogarsi sui mali di tutti gli uomini. La figura femminile della donna da desiderare appare come stuzzicante tentazione dal diabolico respiro che apparentemente accompagna ma che in realtà spinge l'uomo a confrontarsi col baratro delle sue inquietudini. Tutto inizia con lei, per lei, da lei: "Vorrei esserti le cose che ti sono vicine. Il pettine, i vestiti, i luoghi dove sei stata, la gente a cui hai sorriso", e l'uomo cede il passo alle sue debolezze e alle sue paure. Una donna-maledizione dinanzi alla quale lui non può che asservirsi passivamente nonostante dichiari: "Vorrei tu fossi perfetta, vorrei tu non avessi mai conosciuto nessuno prima di me". E lei con i suoi: "2, 5, 10, 50 chi se ne ricorda più" con alterigia impregnata di moderna disinibizione controbatte: "Sono stufa dei tuoi falsi pudori, sei debole, falso, vile. E adesso vattene, che fai seduto sul mio letto". Il protagonista è disarmato; lui che non osa accarezzarla se non con uno sguardo, lui che preferisce peccare di virtuoso romanticismo viene inconsapevolmente condotto a prendere coscienza della vera donna che ha causato la rovina della sua vita. Ecco dunque che la madre irrompe nei suoi flash back; l'irrazionalità di Michele rivive un trauma, quel trauma di una madre padrona che ha messo al mondo un figlio maschio e l'ha cresciuto in un clima totalitarista pensando di poterlo salvare dalla libidinosa e irresponsabile matrice paterna. Ad affossarlo non tarda ad arrivare anche un fratello che, secondo la madre, eccelle in tutto. Figli per lei di uno stesso ventre eppure tanto diversi: uno, militare bello e coraggioso, l'altro, un vile che ripercorre le orme del padre che era stato capace solo di abbandonare la famiglia. Michele? Ormai è una rondine in volo stroncata dai ripetuti spari di fucile dei suoi traumi infantili. Giunge allora la vera chiave di volta di un simile disequilibrio: il tragico conflitto tra un uomo dagli alti valori, un uomo pudico, rispettoso, educato e il venale materialismo della società che lo circonda, lo sbeffeggia, lo rovina; una sconfitta di cui proprio il nucleo familiare si rende crudele artefice. I familiari infatti sono ciò che lui non è e non avrebbe mai voluto essere. La morte porta via ad uno ad uno i pilastri della sua infelicità ma lui non piange e per questo prova un senso di rimorso. Il suo viaggio giunge al capolinea e ci lascia in eredità una saggia verità a cui ancorarsi per poter essere se non felici almeno sereni in una vita mutevole, lunatica e cangiante soggetta tanto alle gioie quanto ai dolori, tanto alla bontà quanto alla cattiveria, tanto al giusto quanto allo sbagliato: "Accettare, comprendere, questo è il senso, il segreto".
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