Storia e storie di L. Messi: l'erede di Pelè e Maradona

di Francesco Greco. “Passala, passala”. Forse Lionel Andrès Messi, il calciatore più pagato al mondo (100mila € al giorno: beato lui!) ha ancora nelle orecchie l’urlo roco del suo primo allenatore, don Aparicio detto Apa, sul campetto spelacchiato del Grandoli (alla periferia di Rosario, terza città dell’Argentina, poco più di un milione di abitanti assiepati sulle rive del fiume Paranà), “tanta terra e solo qualche spruzzata di verde sulla linea di fondo”. Oggi è un vecchio dalla memoria d’acciaio, che emozionato rievoca quei giorni lontani davanti al taccuino di Luca Caioli in “Messi” (il primo libro sul giocatore più forte del mondo), Editore Dalai, Milano 2011, pp. 319, 17 €, collana “Le Boe”.
E aggiunge: “Avevo paura che qualcuno gli entrasse duro e gli facesse male, ma lui ha continuato a dribblare gli avversari… Quando vidi in televisione il primo gol che segnò con la maglia del Barcellona piansi…”. Tre volte “Pallone d’Oro” (ultimo 2011), due Champions League in tre anni: ma stavolta il destino beffardo che regna su Eupalla (copyright di Gianni Brera) potrebbe, vs Milan, far uscire ai quarti il suo Barcellona dalla competizione. Potrebbe…
Caioli vive a Madrid da dieci anni, scrive sul “Marca”, il primo giornale sportivo spagnolo e ha già pubblicato le biografie di Ronaldinho, Zidane e Torres. Per cui sa come tessere le fila di una favola moderna intrecciando realismo e mito con la giusta dose di enfasi. E d’altronde, in una parabola come quella di Messi (25 anni il prossimo 25 giugno) non ce ne sarebbe affatto bisogno. L’inizio della favola ha diverse versioni: don Apa, per esempio, sostiene che era lui a farlo giocare quando mancava qualcuno dell’86, la famiglia (origini marchigiane, Recanati) della “Pulce” (il nomignolo affettuoso motivato da un fisico che non è quello di John Charles, Batistuta e nemmeno Ibrahimovic) che nell’immaginario del pianeta ha sostituito Pelé e Maradona mette in mezzo una nonna dal fiuto sottile, che lo portava agli allenamenti e spingeva per vederlo palla al piede: “Fallo giocare e vedrai quello che combina”, urlava e alla fine il mister le chiese: “Prestamelo!”.
Avercela una nonna come dona Celia: ti cambia la vita. Anche se madre natura non è stata generosa e ci sono volute medicine costosissime e difficili da trovare - per curare una deficienza alla somatotropina - in un’Argentina scossa dalla guerra delle Falkland, dal terrore dei militari e dalle madri di Plaza de Mayo. Comincia così una storia come tante, di quelle che in un Sudamerica dove tutto diventa mito scolora nelle tinte pastello del sogno. Quelle che non sai dove finisce la realtà e inizia la leggenda mentre la si vive. Per dire: Messi non è mai stato a Buenos Ayres, il club blaugrana lo adocchiò in una normale ricognizione in Sudamerica e lo mise subito sotto contratto a 13 anni: la firma su un tovagliolo di carta in un bar. Che sicuramente sarà un gadget prezioso nascosto in qualche cassetto. Il repentino cambio di continente (25 febbraio 2001) non fu facile: Confessa: “Lasciai la mia città, la mia famiglia, i miei amici, la mia gente. I primi tempi furono molto duri. Mi mancavano mia madre, mia sorella e i miei fratelli. Piangevo quando ero a casa. Da solo, perché mio padre non mi vedesse”. Aggiunge l’amica di sempre Cintia Arellano, cresciuta con lui: “Era un bambino timido, che parlava pochissimo”.
Al Camp Nou il brutto anatroccolo cresce in fretta e diventa così un magnifico cigno. La fiaba sembra quasi inventata da astuti uffici-stampa che sanno “vendere” un brand e lo pianificano a tavolino. Avete presente le bizze e gli stravizi delle star sudamericane, Maradona per primo, Ronaldo, ma anche Tevez, per non dire di quelle del passato, da Altafini a Sivori? Beh, scordatevele. La leggenda di Messi si scrive da sola e non conosce eccessi, anzi, la sua forza vincente è proprio nella quieta normalità: tutto genio, niente sregolatezza. Terzo di 4 figli di un operaio caporeparto in una fabbrica siderurgica e di un’operaia di un’azienda che produce batterie. Dunque, origini modeste, classe operaia che va in Paradiso. Messi è tutto casa e Camp Nou, si è portato la famiglia a Barcellona, inclusa Antonella, anche lei origini italiane, compagna di giochi dell’infanzia che aspetta di essere portata all’altare. Il numero 10 è quindi anche un’icona cool spendibile in chiave planetaria come modello per le nuove generazioni: valori forti e umiltà, tenacia e lavoro.
E tuttavia il puzzle è incompleto: è una “frustata” (ipse dixit Fernando Niembro, Fox TV) ma se col club della Catalogna il trequartista vince tutto, non è così con la maglia biancoceleste dell’Argentina. Ai Mondiali 2006 “Peckerman non mi vedeva”: biancocelesti fuori ai quarti, come nel 2010: egli stesso ammise il “flop” dopo il 4 a 0 della Germania: “E’ la serata più triste della mia vita”. Zero reti. Roberto Beccantini parlò (“La Stampa”, 4 luglio 2010) di “strano caso del dottor Jackill e Mr. Hyde”. Messi come Giano: bifronte. Maradona però continua a essere il suo “padre nobile”: “Mi ha detto di continuare così, di stare sempre tranquillo, di divertirmi giocando a pallone e di aver cura di me stesso. La carriera di un calciatore è breve…”.
Sottinteso: nel 2014 non puoi più sbagliare…