“Toilet”, i racconti a seconda del bisogno
di Francesco Greco. “Ruscelli di sangue, spremuti dalle macerie, scendevano lungo i marciapiedi verso la piazza”; “Ci sedemmo a tavola e mia madre portò del pane di sughero che aveva preso con la tessera degli alimenti. Né io né mio fratello mangiammo, anche se la fame era onnipresente”; “Il silenzio era rotto solo dai pianti dei neonati (…) Una donna aveva in mano la scatola dei gioielli”; “Alcuni pregavano ad alta voce”; “Un topo gli era sfrecciato davanti, correndo su un filo di ferro”; “Sono venuti per mangiare i corpi”, urlò… Era dai tempi di Curzio Malaparte, Jhon Steinbeck e il cinema neorealista (De Sica, Rossellini, ecc.) che non si leggeva qualcosa di così pregno, evocativo come questi passaggi de “I topi”, che apre “Toilet” (racconti brevi o lunghi a seconda del bisogno), 80144 Edizioni, Roma 2011, pp. 160, € 8. L’editore ha riflettuto: si legge in metro, alla fermata del 38 barrato, sulla littorina, oltre che nella propria stanza, a tv rigorosamente spenta: il suo cadenzar del tempo, gli echi del feticismo che come sassi cadono nello stagno melmoso, sarebbe un pessimo sottofondo. E si legge in bagno. Ecco l’idea geniale (questa piccola casa editrice di gente appassionata, che affolla il libro d’una semantica salvifica, condivisibile, ne sforna di continuo, e tutte di successo: d’altronde, come combattere a mani nude contro i colossi editoriali?): racconti della durata della “sosta”. In tutto 139 minuti, 2 ore e rotte.“I topi”, che apre l’antologia, 11 minuti. E’ di Michele De Caro, ragazzo foggiano che studia cinema a Los Angeles. Tanto per smentire i format della cialtroneria, l’approssimativo, il tirare a campare, il dolce far niente, da sempre, schiacciare il Sud, solcato invece in ogni angolo da una creatività diffusa e poco conformista. Se i media ne prendessero atto per cambiare password e narrare la realtà, non quella che presunta… E dunque, 13 racconti 13 con una loro grazia lieve che cattura, saporosi come quei dolcetti fatti in casa con amore dalle nonne, o quei piatti della cucina antica acconciati da vecchie zie che riconciliano col gusto della lettura che dice le cose, non da ventriloqui che sussurrano a se stessi, né inturgiditi dall’ideologia con cui tanti scrittori vorrebbero salvare il mondo in 30 righe.
De Caro scrive in modo sorprendente: par di stare sotto le macerie del palazzo accartocciato dalle bombe, a Napoli, ultima guerra: con i topi che cercano salvezza, come gli uomini: bramando uno spicchio di cielo strisciando fra calcinacci e cadaveri imbiancati. Non sappiamo nulla del suo percorso letterario, possiamo però indovinare che sia uno di quegli scrittori cui i grandi editori replicano con lettere ciclostilate: “Ci spiace, abbiamo proposte sino al 2099…”, o che l’editor manda a quel paese sul cellulare. Poi vai in libreria e trovi un sacco di spam che finisce subito da Remainders. E ti chiedi: qual è la discriminante che porta alla pubblicazione? Citi Bukowski: “Conto in banca più grosso? Uccello più lungo? Dio solo sa che cosa…”.
La scannerizzazione delle patrie lettere tocca così a case editrici come 80144, infatti Paolo Baron, nell’ingresso (così chiama ironicamente la prefazione), dice di una “enorme sete di rinnovamento”. Suggeriamo a De Caro di cambiarsi il nome, tradurre in inglese e mandare per posta da Los Angeles: gli editori sono così invasati e suggestionabili che ti mandano in libreria. Originale “E’ lunga, la mattina”, di Silvia Monteverdi (6 minuti): stretti in una dimensione che da ragazzi non sognavamo (un bar-albergo in questo caso), ci guardiamo invecchiare al crepuscolo delle nostre ambizioni: “La mia vita in un VHS grande così che sarà impilato assieme a un mucchio di altri…”, “…di quei giovani di allora, è rimasto solo qualcuno... Erosi dal tempo, dall’alcol e dalla solitudine della provincia”. Il tempo scivola via come sabbia fra le dita. Come nel negozio di Ada dove la ragazza che sognava di fare la redattrice ha trovato lavoro in “Bomboniere”, di Luisa Sagripanti. In bella grafia scrive i pensierini sui bigliettini al tempo dello spread e della società di classe che ai ragazzi poveri, benché dotati di intelligenza e master, non sa offrire di più. Godibilissimi anche gli altri: Mattia Frasca, Raffaella Migliaccio, Simone Arminio, Sara Colzani, Ilaria Mele, Rossella Simonelli, Massimo Ubertone, Francesco G. Lugli, Carla Faricelli, Angelo Zabaglio, Andrea Coffami (pure loro mandati a quel paese dagli editori?). Leggeri e amari, disincantati e folli, innervati di linguaggi nuovi, di una koinè bagnata, contaminata dalla modernità. Storie minimal al tempo della precarietà-status, della call-center generation che costringe allo stadio larvale, di bamboccioni che magari vorrebbero suicidarsi, ma “ci vuole metodo”, e a cui una governance corrotta, avida e sputtanata non sa vergognosamente dare altro. Vaff...!