'Django Unchained' e di nuovo applausi per Tarantino


Andrea Stano. Ieri sera è uscito nelle sale italiane il settimo film (ottavo se si calcolano i due volumi di Kill Bill) del regista Quentin Tarantino. “Django Unchained” è l’opera più lunga di tutta la filmografia del maestro del Tennessee con una durata di ben 165 minuti.

Cinefilo incallito con una morbosa passione per il cinema italiano anni 70’, Tarantino prende in prestito il nome Django dall’omonimo film di Sergio Corbucci con Franco Nero (che compare in un piccolo cameo al fianco di Di Caprio), realizzando il primo western della sua carriera. Si precisa che si tratta di un western atipico non proprio alla Sergio Leone né minimamente paragonabile ai classici americani di John Ford. Il film, infatti, è un evidente prodotto alla Tarantino e se vogliamo dirla tutta, ebbe più le sembianze di uno spaghetti western il celebre “Kill Bill” che quest’ultima fatica, nonostante le ambientazioni tipiche delle antiche frontiere americane.

Django, interpretato da un brillante Jamie Foxx, che firma anche dei brani per la colonna sonora, è uno schiavo affrancato dal cacciatore di teste King Schultz (Christoph Waltz, già Golden Globe per lui), ex dentista tedesco, ora dedito alla caccia all’uomo per denaro.

Dopo una lunga e fruttuosa collaborazione in cerca di mele marce, assassini e rapinatori, i due decideranno di trovare la moglie di Django (la stupenda Kerry Washington), schiava nella vasta piantagione di proprietà di Calvin Candie (Di Caprio), ricco e crudele uomo bianco (appassionato di frenologia, ora ciarlataneria ma allora scienza vera e propria) con un braccio destro di colore, il malvagio Stephen, un “invecchiatissimo” e superlativo Samuel L. Jackson, attore feticcio di Tarantino. Il tutto prende vita all’interno dei paesaggi del profondo sud, specie il Mississipi, Stato storicamente trai più chiusi e meno tolleranti del Paese (non adesso, sia chiaro).

Il soggetto e la sceneggiatura (e lo si capisce perfettamente dai dialoghi prolissi ed immancabilmente eleganti, tipicamente tarantiniani) sono parti della mente geniale del regista che si è già aggiudicato un Golden Globe per la miglior sceneggiatura in attesa degli oscar di febbraio (5 nomination per il film).
Come la tradizione vuole, il film è cosparso di citazioni e omaggi ad altri film, per riportarne qualcuno, “I giorni dell’ira”, “Il Buono, il Brutto e il Cattivo”, “Sentieri selvaggi” e molti altri ancora (alcuni dello stesso regista se per questo).

Il film è molto bello, piacevolissimo, sicuramente da guardare, nonostante la durata consistente della pellicola. Per chi non sopportasse il cinema di Tarantino, a volte cruento sebbene si tratti, molto spesso, di una violenza esagerata al punto tale da considerarsi parodistica, non c’è da preoccuparsi. Le scene di sangue ci sono, tuttavia, le immagini “splatteriane” non sono così invasive da recare fastidio allo spettatore.

Come tutte le creazioni di Tarantino, il film è  sostenuto da una corposa colonna sonora. Diversamente dal solito, però, oltre alla riproposizione di brani mutuati da altri lungometraggi (strepitosa la scelta di inserire sul finale la famosissima musica fischiettata di “Lo chiamavano Trinità”), la pellicola prevede anche musiche originali, spesso pezzi soul e contemporanei, oltre a composizioni di musica classica come “Per elisa” di Beethoven.

La trama, avvincente e mai banale, viene arricchita sistematicamente da intermezzi pervasi da una carica ironica molto forte accompagnati da gag spassose e divertenti. La presa in giro nei confronti degli impacciati e faciloni membri del Ku Klux Klan è straordinariamente raffinata e davvero ammirevole.

Come in “Bastardi senza gloria” Tarantino si schiera apertamente a favore dei più deboli e se nel film di tre anni fa, i nazisti finivano con l’esser massacrati e letteralmente spappolati dalle veementi e liberatorie mitragliate degli uomini del tenente Aldo Raine, i bianchi, coriacei sfruttatori del mercato nero, non vengono certo risparmiati nel corso di “Django Unchained”.

Le nefandezze, brutalità e vessazioni nei confronti degli afroamericani, dunque, verranno controbilanciate da atti di vendetta studiati ad hoc dai protagonisti. E non è certo una novità. La vendetta, infatti, è fondamentalmente l’elemento cardine dell’immenso capolavoro “Kill Bill”.
E’ inutile soffermarsi sulla bravura di Quentin Tarantino in cabina di regia, ma piuttosto su quella del cast. I personaggi studiati dal regista prendono forma tridimensionale grazie ad attori bravissimi che recitano senza nemmeno una sbavatura. Un appunto se lo merita Samuel L. Jackson che entra nel film dopo un’ora di programmazione, a piccoli passi, senza quell’attesa rovente che si prova prima dell’ingresso in scena di Leonardo Di Caprio. Ebbene, l’attore 54enne, è forse il migliore di tutti. E’ lui il reale 'villain' della vicenda e il fatto acquisisce maggiore risalto in virtù del colore della sua pelle, nera, come quella dei 'buoni'.

Nel corso del film c’è posto anche per Elisa e la sua “Ancora qui”, canzone composta a quattro mani assieme all’immenso Ennio Morricone, nella scena prodromica all’incontro tra i due innamorati.

Voto: 7.5