Busi, al crepuscolo del senso parla con una foglia di platano

di Francesco Greco - Ma Busi è davvero il classico vivente che si crede? Siede nell’Iperurano degli Immortali ancor prima di essere mummificato dalle patrie lettere ingrate, in un Paese culturalmente morto, elettroencefalogramma piatto, asfissiato da conformismi devastanti e sterili, fetidi populismi e insulsi feticismi? Domanda aspra come Joseph-Marie de Maistre “Dio&Ordine” che saccheggia in “El especialista de Barcelona”, Editore Dalai, Milano 2012, pp. 375, € 19, bellissima copertina da un dipinto di Francisco Goya (“Se repulen”, 1790, ca.).

   In attesa di una qualsivoglia risposta, dello scrittore di Montichiari (Brescia) dove mantiene la residenza fiscale si può dire ciò che Bukowski diceva di Hemingway: “O è buono buono, o non c’è niente…”. Praticamente è in stand-by per il Nobel.

   Anche in questo romanzo fluviale sparge la sua prosa febbricitante, onanistica (non per caso riscrive i suoi libri passati), al crepuscolo di ogni senso, che svuota, scarnifica senza requie. Stavolta è a Barcellona, deve sedersi all’unica sedia agganciata al pavimento (elemento da decodificare in chiave psicanalitica) per posare finalmente “il culo nel burro”, e intanto parla alla foglia di un platano e intrattiene in noiosa conversazione due sorelle di Jerez de la Frontera.

   Di cosa? Dei “politici, i preti, i poliziotti, i sindacalisti, i presidenti di regione, i parlamentari e i parlamentari in pensione… banchieri, industriali, mafiosi… Ce l’ho messa tutta nel farmi considerare persona non degna e non grata… La loro uva acerba mi fa schifo tanto è marcia… ”. E dei “figli del popolo, gli operai, le commesse, quelli dei call center, i contadini, gli impiegati, i precari, gli esodati, i disoccupati, i sottoposti tutti, i neoproletari…”. Un’umanità spocchiosa o dolente, che divide in “umani-plancton” e in “umani-squali” e che ogni giorno partecipa alla rappresentazione di un’esistenza codificata, uno status quo stomachevole che infatti disgusta un sacco uno come Busi che ha letto 20mila libri e che ha elevato a mantra questa affermazione: “La furbizia serve a difendersi, l’intelligenza a andare all’attacco”. E che confida: “Sono un morto civile, uno fatto fuori senza spargimento di sangue…”. Hola, hoja!

   Ironico, sulfureo, escatologico, destrutturante, Busi continua la mission che s’è data con “innocente malignità”: relativizzare ogni spiritualità, la politica, l’ideologia, la civiltà che ci siamo dati, la filosofia, il capitalismo, la psicanalisi, la multinazionale, Confindustria, Cgilcisluil, l’utopia, la speranza e tutto quello che tiene vivi gli “umani-plancton” giunto com’è nell’oasi dell’antimorale in cui l’Occidente guazza da oltre un secolo, ormai al crepuscolo di tutte le divinità (“Mela sessuale, mela bacata, mela avvelenata… ghigliottina da passeggio”), trasfigurando una morale del nichilismo, sentiero su cui comunque Emile A. Cioran si era spinto ben più oltre e con meno barocchismi decadenti (“…l’uva più matura e prelibata e irraggiungibile resto io per loro…”).

   Busi è ormai sinonimo di narcisismo incontenibile, straripante, turgidità dell’io, lazzi secolarizzanti, agnosticismo insonne, energia folle, gelida autoreferenzialità. Non aspetta alcun Godot (semmai Godot aspetta lui) e butta giù dagli altari gli dèi quelli che ancora si ostinano a restare appollaiati senza il senso del ridicolo, del grottesco. Sale sulla colonna dello stilita e, con una scrittura transumante, peripatetica mette in scena la stupidità che regge le nostre vite di burattini disarticolati e folli, paranoici e aggressivi, la retorica di cui ci nutrono, i populismi d’ogni sorta, le rimozioni e le sublimazioni quotidiane.

   Con una prosa a tratti scintillante e muscolare, vischiosa, tenera e violenta e a tratti invece opaca e priva di luce interiore e pathos, denuda ogni Re spogliando il suo io senza pudore: “…se ti piace la bellezza della vita devi fartene piacere le bruttezze cui non c’è rimedio  e che come accogli la gioia devi accogliere il terrore”. Ci conduce per mano nel deserto del senso (il “Nulla Globale Garantito”), nel disincanto sublime, rarefatto (“Nessuno mi darà un briciolo di identità ponendosi a tu per tu con me… Non ho alcuna aspettativa sociale o sentimentale o amicale… Nemmeno da giovane ero uno che sognava a occhi aperti… L’unica maniera per essere felici è essere felice a modo tuo…”) e dopo averci dato “lo scandaglio per sondare anche la profondità della mia solitudine” ci lascia lì ubriachi e confusi in attesa della sua prossima performance per continuare a rubare il midollo, succhiare la linfa del reale.

   Un Messia postmoderno e apocalittico, che ha formattato tutto perché andava fatto, che si serve di una luce caravaggesca per svelare l’anima del mondo, ambisce alla posterità e che intanto al tempo dell’android si pone al crocevia di un futuro su cui è il primo a dubitare, e infatti, con “la vox blanca de mi silencio”, lo becchiamo ad “affilare tra un pagina e l’altra un coltello o lubrificare la vecchia carabina del nonno in attesa di fare squadra con quelli come te… “. Repulisti! Repulisti! Cucurrucucùùù palooomaaa…  

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