Non fate patti col diavolo come “Il Signore dei lupi”

Alexandre Dumas è lo scrittore francese più letto al mondo, i suoi romanzi (da “Il Conte di Montecristo” a “I Tre Moschettieri” e “Il Tulipano Nero”: autentici long-seller), sono tradotti in oltre 100 lingue. Più di Hugo (che lo definisce “padre della civiltà (…) indaga l’animo umano e lo feconda”), Gide, Camus e lo stesso Proust. E’ un classico da sempre, un maestro del narrare, e si capisce perché anche in questo “Il Signore dei lupi”, Edizioni Piano B., Prato 2013, pp. 172, € 12, (Collana “Controtempo” in cui sono anche Jhon Dos Passos, Sherwood Anderson, Jules Verne: come dire i giganti della letteratura d’ogni tempo) romanzo chissà perché ritenuto marginale nella produzione di Dumas (1802-1870).
E invece l’intarsio piano, la trama liquida e fluente, una costante della prosa di Dumas, sono uguali, e rappresentano l’atout malioso di ogni sua opera. Qui si inventa un espediente narrativo intrigante: è un certo Mocquet - il custode della proprietà del Generale, il padre, che “mi raccontava mirabolanti storie di fantasmi e lupi mannari” (…) ”casa vuota, c’entra il diavolo” - che gli racconta la storia dello zoccolaio che infebbrato dalla sete di crescita sociale, benché legittima, traffica col diavolo per poi accorgersi di provocare il male anche alle persone amate e rimpiangere la miserevole condizione di partenza, sfogandosi col diavolo venuto a riscrivere il patto scaduto dopo 365 giorni, un anno vissuto pericolosamente: “Da quando ti ho incontrato ho conosciuto solo vane aspirazioni e superflui dispiaceri. Ho desiderato la ricchezza, e adesso mi dispero per la perdita del mio tetto di muschio sotto il quale mi addormentavo senza preoccuparmi dell’indomani, né del vento e della pioggia che sferzavano i rami delle querce! Ho desiderato le grandezze, e ora i più miseri contadini della pianura mi danno la caccia a colpi di pietre e di bastoni! Ho chiesto l’amore alla sola donna che mi abbia mai amato…”.
Il contesto sulfureo (fra mute di lupi obbedienti e macchia di capelli rossi che si allarga in testa) in cui la storia di Thibault che si fece lupo mannaro si dipana è quello della Francia post-rivoluzione, in cui l’ordine sociale sconvolto sta per essere ripristinato dalla restaurazione. Dumas cosparge la sua prosa da maestro di stile di sommesse allegorie e sottintese metafore che si richiamano alla società nata dal livello escatologico della Rivoluzione, in una Francia rurale dominata dalla superstizione, dagli istinti, dalle viscere di nuovi protagonisti coltivati dai Lumi, che vorrebbero farsi Storia ma, benché dotati di un’energia primitiva, destrutturante, ne sono impediti dalla mancanza di identità, di visioni, di pregnanza politica (“Suo padre aveva fatto lo sbaglio di dargli un’istruzione superiore alla sua condizione…”). E Thibault: “Se esiste un Dio per i poveri avrò ragione di quel barone che mi ha frustato come un cane. Frustare un uomo come me, sempre pronto a vendicarsi!”. Vendetta e legittimo desiderio di cambiare status sociale: “Desiderava Agnelette solo perché era giovane e bella e perché, per sua natura, desiderava sempre possedere tutto ciò che avrebbe potuto appartenere ad altri”.
Fra rabbie e furori, desideri incalzanti e vendette su chi glieli vorrebbe impedire, Thibault corteggia la mugnaia Polet, Suzanne la moglie del balivo Magloire e poi la contessa Jeanette ma finirà braccato dai cani del barone Jean de Vez che si disputeranno una pelle di lupo insanguinata e che riuscirà a ripristinare lo status quo, mentre nelle ombre della sera scivola un misero funerale al passaggio del quale “Thibault aveva sentito sciogliersi il ghiaccio del proprio cuore”.