'I panni sporchi della sinistra'? Li lava la sinistra

di Francesco Greco - “La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano”. Ipse dixit Enrico Berlinguer, segretario del Pci, il 28 luglio del 1981.

   Un secolo fa. L’etica luterana berlingueriana, fondata sulla teoria della diversità, è stata messa a dura prova quando, in questi 40 anni vissuti pericolosamente, il Pci-Pds-Ds-Pd ha assunto posizioni di potere che dalla periferia si sono estese al centro. Tutte le grandi città sono governate da sindaci di sinistra, a cui i cittadini quasi sempre rinnovano la fiducia. Tuttavia episodi di corruzione emergono a macchia di leopardo un po’ ovunque, da Nord a Sud. Mai però elevati a sistema, come fu per i partiti della prima Repubblica: Dc e Psi in primis. E mai tollerati, persino teorizzati, perché “così facevan tutti” e la notte tutte le vacche son grige. La responsabilità resta comunque soggettiva e la sinistra, il suo popolo, continua a conservare gli antidoti culturali alla corruzione perché quello è il suo dna e anche perché sa quanto sia devastante.

   Ne “I panni sporchi della sinistra” (I segreti di Napolitano e gli affari del Pd), di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, Chiarelettere, Milano 2013, pp. 384, € 13.90 (Collana “Principio Attivo”), si parte da un’idea di corruzione vaga e a tratti qualunquista, ammantando di nuova semantica e di un’etimologia posticcia il termine: metodologia analitica che depotenzia il lavoro, che si regge su brandelli di inchieste note, stralci di atti giudiziari collazionati.

   Cosa c’entra infatti la corruzione con i denari provenienti da Mosca negli anni Settanta, al Pci, nella logica dell’internazionalismo proletario, a sostegno ideologico di un partito di massa, necessari alla sopravvivenza, mentre la Dc li riceveva dagli Usa, e il Psi dalle imprese pubbliche e private? Cossutta doveva portarli. E che c’azzecca la corruzione con un Napolitano che riconosce in Berlusconi un interlocutore politico legittimato non dal Colle ma dai suoi elettori? Era suo dovere istituzionale farlo. O un D’Alema che tenta di scardinare lo strapotere conservatore, lobbystico, massonico delle banche, poi tracimato nel 2008 con derivati e subprime? Doveva farlo. La purezza di chi vive assiso sulla nuvoletta iperuranica è bella ma un tantino retorica, metafisica, grottesca. Come si fa ad assimilare Primo Greganti (il compagno G.) a Silvano Larini, a Mario Chiesa e a chi, oggi, ha una casa vista Colosseo e dice di non saperlo? C’era chi rubava per sostenere il partito e chi per arricchirsi con i conti all’estero.

   Né si può derubricare a sociologia un elemento culturale al contrario determinante dal punto di vista etico e politico: la reazione agli episodi di corruzione. Baldanzosa e arrogante quella della base Dc e Psi, al tempo di Tangentopoli, tesa a criminalizzare i magistrati ideologicamente neutri, sofferta e intollerante quella del popolo della sinistra, il primo a provare imbarazzo e vergogna e a chiedere il bisturi. Ogni episodio sollevava, e accade tutt’oggi (dal sistema-Sesto di Penati al sindaco di Salerno) una rivolta morale della base, che dal centro alla periferia entra in depressione, disgustata, a invocare una lotta radicale alla corruzione, più accortezza nella selezione dei quadri dirigenti e l’ostracismo per le mele marce.

   Nel rivendicarlo con tenacia, il corpo complessivo del Pd mostra di essere sano, l’etica berlingueriana, tutto sommato, è salva: non per autoreferenzialità, ma per un fatto oggettivo. Ripetiamo: il Pd ha migliaia di amministratori locali onesti e appassionati. La corruzione a sinistra non può essere pertanto omologata a chi teorizza la cultura dell’impunità avendo corrotto magistrati, senatori, ragazzine. Scandalizzandosi per la pagliuzza altrui e ignorando la trave nel proprio occhio. Sostenere il contrario, estrapolando qua e là da atti giudiziari è malafede dettata da subcultura cattolica che vede il demonio ovunque, anche dietro la naturale dialettica istituzionale e politica.          

   Occorre comunque, a tutela dell’etica pubblica, una normativa più dura (la legge anti-corruzione è acqua fresca),  anche perché la corruzione ha costi sociali inimmaginabili. Per smentire Piercamillo Davigo: “Dopo Tangentopoli il potere politico tutto, di centrodestra e di centrosinistra… non si è affatto preoccupato di prendere provvedimenti per contenere la corruzione, ma semplicemente di contrastare e rendere più difficili i processi. Il centrodestra lo ha fatto in modo talmente spudorato da risultare vergognoso… Ma il centrosinistra ha dimostrato abilità più sottili… cose passate in silenzio, senza il clamore delle leggi ad personam, ma che ha reso più difficile contrastare i fenomeno” perché, citando Machiavelli: “Quando i mezzi sono sporchi, sono sporchi anche i fini”.

   Il saggio di Pinotti e Santachiara è scritto in punta di penna, ma è sbagliato il format, l’approccio analitico che in certi snodi, certe forzature sfiora la disonestà intellettuale. Riecheggia di integralismo alla Grillo, di fondamentalismo da morale talebana. Certi automatismi non funzionano: parlare col Caimano non significa corruzione, né telefonare a un banchiere connivenza. Non siamo nelle madrasse tra fatwe e sure coraniche e l’Europa degli untori non c’è più. Dopo i “Lumi”, le degenerazioni si combattono col diritto, non vedendo mostri dietro ogni angolo e urlando al lupo! Al lupo!