Il vino? Da Omero a Plinio e Adua Villa parla di noi

di Francesco Greco - “Il vino, come l’amore, va vissuto, non spiegato”. Goccia di un elisir d’antica saggezza universale distillata in 2a di copertina, lascia storditi come dopo un crepuscolare “come eravamo” d’autunno fra compagni di scuola bagnata dall’impertinente novello i cui acini confondono uomini e dèi. Cosa si nasconde in una bottiglia (“sapori, profumi e colori”)? Le parole riescono ad afferrare la complessità di emozioni, comunque soggettive, evocate?

Poi in 4a leggi una bozza di autoritratto: “Amo la musica, sono sensibile alla moda e ai fotogrammi del mondo. Ma il mio vero, grande amore, lo confesso, è lui, il vino”. Sottinteso: gli uomini tradiscono, il vino mai. Altro nettare filosofico al tempo dell’android, il decanter, gli odiati bicchieri di plastica. Traduzione: il vino è un modo di aprirsi un varco nel tempo, il cuore della terra, dell’uomo.

Sciamano? Maestro zen? Maitre-à-pensèr? Stavolta la sommelier di fama, in carriera (Master Class, docente Ais) Adua Villa vira nel mosto di un viaggio sentimentale vagheggiando un uomo che almeno si avvicini all’icona che in controluce vede nei vini, alla tavolozza nella sua mente, un mosaico ricco di contaminazioni, suggestioni, innervato di complicità pregna di erotismo: puro Balzac con sapide pennellate da Isabel Allende.

Come nell’intrigante “Una sommelier per amica” (2012, Sonzogno) il vino è semanticamente affollato di significati significanti (“Cerco nei vini emozioni più profonde…”, “Il vino serve a godere della vita e, nella giusta misura, la rende meravigliosa”). Sa che per censo è “discontinuo, capriccioso, volubile” e lo usa come password per dire del mondo, la vita, gli uomini, amori e dolori, piaceri e doveri, la calda terra, transfert panteista del grembo materno, che come morsa dalla taranta a piedi nudi (“per sentirla meglio”) calpesta in una danza dionisiaca, ditirambica, per rubarle l’energia del Big-Ben, l’Universo, la sua anima antica che – sovrapponendo la sua biografia - trova racchiusa in una bottiglia (“tante altre erano ancora lì ad aspettare di essere scoperte”), un’annata buona , le amate bollicine, un vitigno storico, un terroir col pedigrèe.

Un Sacro Graal che, col linguaggio universale, la ricca koinè, si svela solo agli iniziati, un vello d’oro facile da possedere: basta cercarlo con la pazienza di cui si arma. Adua (“Alice nel Paese delle Meraviglie”) è donna del nostro tempo, sa stare al mondo, annusare gli odori (non solo dei vini), riconoscere l’umanità con cui si relaziona con l’incanto d’una bambina che scopre le cose, ma anche l’astuzia d’una psicologa intanto che mordicchia i suoi madeleine in un convivio tutto femen, sempre dentro uno stile (noblèsse oblige): “Non c’è cosa peggiore che bere un ottimo spumante a una temperatura sbagliata”. Si, c’è: il vino di Hitler.

Nella sua rappresentazione del reale basta niente e sei out, rottamato: una camicia vintage, un accoppiamento vino-cibo grezzo, un regalo stereotipato, un déjà-vu. E’ così per Ludovico “superego ambulante… parla sempre e solo di se stesso” che a Londra spaccia l’amante giapponese per segretaria (un “tappo”, Gilda invece è longilinea, coscialunga, quarta di seno: non teme confronti: “italians do it better”), idem a Milano con una statuaria magrebina. E Lupo il nobile decaduto, millantatore dal braccino corto, lettore della “Padania”. Un miserabile dalla camicia kitch, che legge i giornali gratis e vive coi nonni, dorme su una branda in una stanzetta col fratello: si fa pagare aperitivo e cena (ma le regala un dentifricio): “A noi del Granducato ‘mporta ‘na sega di quanto avviene dall’Arno in giù”. Formattato come le pessime annate. E’ il tetrapak, bellezza!

Ma sotto la patina del disincanto upper class, wasp, Gilda (alter ego della sommelier più fascinosa che si conosca, sacerdotessa di una religione dai riti rigidi, linguaggi codificati, cristallizzati (“il target di conversazione è upper” dice la pasionaria, come dire: ci penso io a destrutturarli) è la donna del III Millennio, sentimentale e ironica, ingenua e lieve come un farfalla bruna. Arriva dalla provincia, la mamma gli ha detto tutto, ha senso pratico (“pragmatiche e risolutive”) senza il quale andrebbe alla deriva, dietro le quinte mentre è alla ricerca dell’Uomo con la “u” maiuscola (e proustianamente del tempo perduto) che sovrappone (“associo il mio uomo ideale alla cantina perfetta”) all’intensa ricchezza filologica dei vini. Ecco il suo manifesto: “Un buon vino non tradisce, un uomo…”. Poi, colta da scetticismo riflette che “è più facile trovare al di sotto dei 3000 € sei bottiglie di Petrus 1982 che un uomo equilibrato” (l’italiano medio direbbe lo stesso, della donna).

“Vino rosso tacco 12”, Cairo Editore, Milano 2014, pp. 140, € 12 (Scrittori Italiani), il primo romanzo enologico italiano e, forse, mondiale, si legge d’un fiato, si beve, pardon, si degusta (solo i poveri di spirito, non di carte di credito, bevono), come gli eroi omerici dopo una battaglia vittoriosa, a Sparta o alle Termopili o a Sparta (“un vino dolce, purissimo. Una bevanda divina”). Prosa abbagliante, nitida, frizzante, che scorre come Veuve Clicquot Riserva, strutturata

sociologicamente, retrogusto antropologico denso di frutti di bosco e salsedine. Con cui destruttura la volgarità del quotidiano raggrumata ovunque (tetrapak incluso). Struggenti le pagine dove rievoca la fine del padre (“Lui era il mio Nord…), il tormento (“Buttate via la luna, tirate giù il sole…”), l’elaborazione del lutto.

Il vino è transustanziato in “recherche” (“Mi piace più di un Borgogna del ’73”), trasfigurato nell’”Origine del mondo” di Courbet, metafora dell’avventura umana, la sottolinea, enfatizza i passaggi, afferra l’intimità, il calore (“impossessarmi della sua forza”), la passione, la gioia, il dolore, la disgrazia dell’essere nati direbbe Cioran, perché “le bottiglie sono un po’ come noi…”. Un vitigno è come il lettino dell’analista: dice tutto, anche inconsciamente, pure quel che vorremmo tacere. Il vino è un alibi per raccontare il Cosmo sopra di noi e quello dentro di noi: ma anche uno status, uno stato d’animo, una stasi dello spirito, un mood intimo. Mentre una mamma morbosa vive attaccata al cellulare e Gilda gode della complicità di amiche storiche: Adriana e Lara.

Non sapevamo che a Milano ci sono zanzare-killer. Non bastano Bossi e affini? Da suicidio. Troppo per le povere milanesi dal sangue dolce, come Gilda. E Pisapia non fa nulla per bonificare i Navigli. Il romanzo è scorrevole, radioso, colmo luce e di intuizioni, denso, tannico, strutturato come un saggio di Voltaire o Montaigne, fa pensare al “Viaggio in Italia” (1957) di Guido Piovene (con retrogusto di Arbasino), ma anche al “Viaggio con Charley” di Jhon Steinbeck, se non vogliamo dire dell’Odissea dove Omero dà al vino il compito di ricalcare stati d’animo, amori, lotte, conquiste, ripiegamenti, successi, tradimenti, abbandoni.

I vini, dice Gilda, non tradiscono mai le aspettative, salvo quando “si presentano con le etichette esagerate e improbabili” (accade spesso: l’uomo è avido, malvagio, non il vino: basta dire del metanolo o i taroccamenti). Parafrasando un modo di dire, si può concludere che più si conoscono gli uomini più si amano i vini. Gilda lo sa (“mi ci farei le flebo con lo champagne!”), ma cita Plinio e Dumas padre e continua a frugare nella carta dei ristoranti, gli hotel, le cantine dove si degusta (“attimi di vero, intenso, persistente piacere” per “saziare anima e corpo”, “mettere a tacere ogni dolore e sollevarmi da ogni mio spleen”). In cerca se non di un “Le Tourelles de Longueville” del ‘93 che dà ebbrezza, energia, potenza, come se fossimo padroni del tutto, della vita e la morte, del fato sottomesso, almeno di un ruspante, barocco Negroamaro, mon Dieu!

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