Io lo conosco bene, parla “L’avvocato del diavolo”
di Francesco Greco - Geniale, seduttore, impostore, guascone (“Beati voi che potete dormire. A me invece adesso toccherà pure ciulare!”). “Non disdegna la menzogna”, e pratica il bluff. Spesso colto da amnesia (sulla data d’iscrizione alla P2), incantatore di serpenti (“Io sono una strega”), unto dal Signore (B. ha origini cattoliche, “pretesche”), predestinato sin da quando, da piccolo, orgoglio dei genitori, ricopiava i compiti in bella e li vendeva ai compagni: “Il nostro Silvio diventerà Presidente della Repubblica”. 4 volte a Palazzo Chigi, ma il pericolo che davvero ascenda al Colle è nell’aria, fra crostate, larghe intese e Nazareni. E’ Renzi lo spot dell’”uomo che ha fottuto il suo paese” (The Economist)”, in stand-by per surrogare poteri da “caudillo”, devoto com’è, e non da oggi, a un presidenzialismo tutto suo (irritato però dalla versione di Napolitano).
“Grande narciso, ricorda Mussolini…”, millantatore (7 zie suore, in realtà una sola, Marina), spregiudicato, scaltro, opportunista (fugge “dai contrasti… tende a mantenere il piede in due scarpe”, non si schiera mai né coi falchi né con le colombe perché “l’unico scopo della sua azione politica è quello di salvare se stesso”), gran conoscitore di uomini: Fitto sarebbe la fine di FI, partito-azienda di cui Dell’Utri, capo di Publitalia (“Non abbiate scrupoli”), da regista, nel ’94, nello scantinato del Bunga Bunga scremò i candidati catechizzati dal capo sul “comunismo assassino” e la “fine della democrazia”, (lombrosiano: bastavano “mani sudaticce” per essere scartati), le loro potenzialità nascoste, e soprattutto di donne (a volte escort sotto mentite spoglie).
Autostima folle: “Sono stato – delira nel 2009 - di gran lunga il miglior Presidente che l’Italia abbia avuto nei suoi centocinquantanni di storia”. Mavà! Berlusconi vs Pirandello: 1, nessuno, 100mila. Visto da vicino, come non lo sospettate: format freudiano. Intimo, segreto, da orgia del potere: così lo narra chi gli è stato amico e sodale dall’80 al 1996, avvocato personale e di Fininvest, parlamentare (capogruppo FI), scacciato dal cerchio magico perché la morosa Stefania Ariosto, romana, antiquaria a Milano (passata alla storia anche per questa frase: “Dotti si occupa degli affari legali, Previti di quelli illegali”) cantava col pool milanese, marzo 1996: nell’88, ai tempi dell’affare-Mondadori, aveva visto Cesare Previti (per B. un “avvocatino romano”, ignoto a Franzo Grande Stevens, calabrese, figlio di un dirigente del fascio, fan di Pinochet, “Pinocchietto”, il suo credo: “Non facciamo prigionieri”) dare qualcosa a Renato Squillante (“A Renà, te stai a dimenticà questa”). Su cui la pm Ilda Boccassini incardina – grazie a intercettazioni ambientali - una delle mille inchieste delle “toghe rosse” (senza le quali il malaffare sarebbe oggi religione di Stato, più di quanto non lo sia).
Una “colomba” ritenuta da B. e i suoi “falchi” suo mèntore, ispiratore, ghost writer (perché l’avrebbe fatto?). B. conosce le donne, sa che mentono anche al confessore. Avrebbe dovuto darle della mitomane: “Smentisci e io ti faccio sindaco di Milano… Ti metto a disposizione i miei telegiornali”.
Milanese, studi classici, cultura liberal, Vittorio Dotti ha frugato nell’armadio cavando ritagli, foto ingiallite, ricordi rimossi finiti in “L’avvocato del diavolo”, Chiarelettere, Milano 2014, pp. 240, € 14.60, e-book € 9.99 (con Andrea Sceresini, collana Reverse). Una seduta psicoanalitica (ma si legge anche come saggio socio-antropologico con retroterra genetico, come il “Dizionario filosofico” di Voltaire). Impietoso, iperrealista, iconoclasta, il ritratto a olio dell’ex Cav. e il suo mondo, il convivio, la filosofia di vitada cultura bignamina (“scarso vocabolario”, da biblioteca di dorsi, come quella di Henver Hoxia).
L’avvocato che si sognava sindaco di Milano (gli danno la Regione ma rifiuta: capisce che vogliono scacciarlo dal Parlamento, ormai la politica vira verso il basic instint: rivoluzione liberale, the end) e che Rosa Bossi definì “traditore per eccellenza”, ha la memoria di un elefante, si toglie sassolini, e sassoloni, ma molti passaggi della parabola del “Dottore” li si accetta per fede (integrati però dalle inchieste, che completano il puzzle).
Salutista, piduista (colpa di quel “pirla di Gervaso, ha insistito tanto”) ostenta virilità (con la dieta di verdure del medico catanese Umberto Scapagnini, in Parlamento anche lui, ovvio), Dotti ricostruisce, con la forza implacabile del piano-sequenza e dovizia di aneddoti illuminanti, le metamorfosi: palazzinaro coi soldi della banca Rasini dove il padre è funzionario (per Michele Sindona “una delle banche usate dalla mafia”), tycoon tv, poi la politica (“altro non è che l’ennesimo business”) finito, dopo una condanna, ai servizi sociali e resuscitato, alla Lazzaro, da Renzi (che si fa finanziare da Denis Verdini, pappa e ciccia con B.). Il gatto si morde la coda.
Volgare, privo di stile (tenuto distante dalla borghesia lumbard col pedigree araldico, che lo legge come un parvenu), pregno d’onnipotenza, io bello turgido, capace di offrire a Montanelli un loculo nel mausoleo di famiglia ad Arcore, ricevendo un velenoso, montanelliano no, grazie: “Domine, non sum dignus”. Emilio Fede, invece, azzoppato da guai giudiziari, svernava in una tv per pochi intimi, rilanciato da Mediaset, non vede l’ora di occupare il suo.
Ha comprato tutto: tv, ville da nobildonne malate, supermercati, case editrici, compagnie assicurative, intellettuali, giornalisti, magistrati, avvocati, escort, squadre di calcio, parlamentari, partiti, aziende (col gruppo Caltagirone, nei guai per tasse non pagate, non ci riuscì). Per Montanelli (malato, gli lavò i piedi: “E’ una cosa che non ho fatto mai neppure a mio padre”) legava con i “mammocci” e non credeva alle sue stesse “panzane”. Non conosce chiaroscuri: divide l’umanità in “amici fedeli e nemici giurati”, ma, dice Dotti, nonostante Mubarak, Putin, Ben Ali, Bush jr., Lukasĕnko “è un uomo solo”. Sarà…
Anni ’80, ecco le tv del Biscione: “Perché non facciamo trasmissioni educative?”, chiede ingenuo Dotti. B. serafico: “Ma le abbiamo già, non vedi i programmi a quiz di Mike Bongiorno?”. Citazione delle SS, che alla parola cultura portavano la mano alla fondina.
Gli piace, dice Dotti (che nota preoccupanti affinità fra Renzi e B.), atteggiarsi a pater familias, patriarca magnanimo. Arruola tutti per levarli alla Rai (poi non ne avrà bisogno). Chiama una conduttrice in calore: c’è posto nel nel tuo letto? La Mondaini lo trova “incredibilmente sensibile”, Fellini ammira “Drive In” (per le maggiorate alla Tinì Cansino? O scherzava). Non rispettano l’esclusiva Boldi e Villaggio: per non pagare risarcimenti esosi (e finire sotto i ponti) gli si buttano ai piedi. Cipollino vs Catullo: “Silvio mio, tu fai rima con Dio”. Fantozzi usa una password demenziale, steso sul tappeto: “Sire, pietà!”. B. perdona: ama i coup-de-thèâtre. Una boiata pazzesca, come la Corazzata Potemkin.
Voleva riempire, anni ’80, di m. la Mondadori, e non “metaforicamente” (poi la comprò anche per levarla a De Benedetti - competitor per raccogliere la leadership di Agnelli - ma l’ha dovuto risarcire con 494 mln). Invece ha allagato il nostro immaginario, e oggi, per contrappasso dantesco, ridotto a pulire quella dei malati di Alzheimer, senza la dignità degli statisti veri.
“Teorico della insostituibilità… non ha idee politiche”, ha derubricato la rivoluzione liberale nello “sconcio di leggi ad personam”. Dalla “Milano da bere” è Craxi a fargli da apripista: sia col decreto che sblocca le tv oscurate il 16 ottobre 1984 che quando le esporta in Europa (Germania, Spagna, Francia e rimestare con l’Urss).
Dotti conferma i sospetti: B. s’è dato alla politica (“berrò io l’amaro calice”, 26 gennaio 1994) perchè gli equilibri sconvolti da Tangentopoli e con Craxi al crepuscolo (a Roma troverà Gianni Letta, abruzzese con le mani in pasta pure nella custodia, non nei tribunali) non lo garantivano più nei suoi affari: “Mi vogliono morto! Lo stato mi vuole massacrare”, piagnucola con gli yes-men. E se le banche rivolessero i 4mila mld “esposti”? Sondò, inutilmente, Martinazzoli e Segni. Così scende in campo e l’Italia è out (Dotti fa un bilancio a tinte fosche dei 4 lustri).
Machiavellismo d’accatto: “Le ideologie gli erano perfettamente indifferenti… Se domani, in cambio dell’azzeramento dei suoi processi e delle sue condanne, gli offrissero di candidarsi nell’odiato Partito Comunista, scommetto che accetterebbe di corsa”, chiosa ispido Dotti, che poi sarà scaricato da B. e i suoi “cortigiani”, “lacchè”, eletto nel 1994, non ricandidato nel 1996, evitato come un untore da Dell’Utri e finanche Paolo Bonaiuti, vecchio compagno di liceo, disoccupato (“mobbing” al Messaggero) che aveva segnalato a B. diventandone portavoce con mood apologetici, lirici, da favoreggiamento. Biagi gli dice: “Lei è caduto ma è caduto in piedi”.
Renzi tutto questo non può non saperlo: così, da Berlusconi 2.0, si trasfigura nella sua pappa reale, nel menestrello del berlusconismo morente, da autunno del patriarca. Di solito il morto afferra il vivo, lo tira giù e lo affoga: è la storia. Con dinamiche diverse, è accaduto a Occhetto, D’Alema, Veltroni, Rutelli, Prodi. Col suo riformismo alla “famo casino”, Renzi è in pole-position…