VENEZIA '14 / Andreotti “visto da vicino”? Cinefilo appassionato e moralista

dal nostro inviato Francesco Greco. VENEZIA – Stroncò il Neorealismo (“Ladri di biciclette”, l’opera più alta, significativa) e i suoi aedi (De Sica, Rossellini, Zavattini, Visconti, Aldo Fabrizi, ecc.) al grido di “i panni sporchi laviamoli in famiglia” con cui si consegnò ai posteri. Intendeva relativizzare il successo planetario di “Sciuscià”, “Umberto D.”, “Roma città aperta”, “Avanti c’è posto!”. Magari se ne pentì, chissà, perché poi quelle opere sono state studiate dai grandi registi americani (Scorsese in primis). O forse proprio quell’astio ideologico spinse opere politiche che spogliavano il Re nell’Italia operosa della ricostruzione, materiale e morale.

L’Andreotti che non ti aspetti, il “Divo” Giulio nascosto, insospettato, sconosciuto, fu anche un grande appassionato cinefilo: capì per primo la grande forza dialettica del cinema, l’enorme valenza culturale e di comunicazione popolare. Lo stroncò, con la chiarezza concettuale che lo contraddistinse, ma anche lo sostenne senza se e senza ma.

Sorprende pertanto il bellissimo docu-film, “Giulio Andreotti, il cinema visto da vicino” (presentato a Venezia 71 nella sezione “Classici”) di un’ora e mezza, firmato da Tatti Sanguineti, critico raffinato, visionario, che propone lo statista in un ruolo inedito, da un’angolazione inedita. Che si trasfigura anche in una pagina della storia d’Italia.

Era pronto da anni, ma non trovava produttore e distributore. Ore e ore di incontri (Giulio cambia 21 vestiti diversi!) col politico in veste di critico, di registrazione e infine la selezione per poter essere messo in giro. Lunghe conversazioni, materiali da Istituto Luce, frammenti di film in b/n e a colori (ritroviamo con un tuffo al cuore “Il tassinaro”, col sublime Alberto Sordi).

Immaginiamo che per Sanguineti non deve essere stato facile. A metterlo sulla pista fu lo sceneggiatore Rodolfo Sonego: “Se vuoi capire il cinema del dopoguerra vai da Andreotti… Ha ammazzato 5 film ma ne fatti fare 5mila!”. Apprendiamo così che il “Divo” (morto 94enne a Roma, dove nacque nel 1919, a maggio dell’anno passato) valorizzò Cinecittà come grande industria italiana da cui poi Hollywood scopiazzò (Mussolini l’aveva fondata e asservita con i film mitologici e i telefoni bianchi), sostenendola, come dire, in solido. Che si battè per una legge che contenesse lo strapotere del cinema Usa e dei suoi blockbuster.

Che, per diffondere la settima arte anche nel centro rurale più sperduto dell’Italia postbellica, aiutò i 4000 cinema parrocchiali, che negli anni Cinquanta e Sessanta erano sempre stracolmi di pubblico (come ricalcò Fellini in “Roma”).

Ma fu anche un censore furioso: interveniva sia in termini preventivi (sulle sceneggiature) che successivamente: alla “prima” proiezione nella saletta (era membro della commssione che concedeva il nulla-osta per l’uscita). Scene di nudo, e si può capire (etica cattolica) ma anche “Don Camillo e Peppone”, per esempio. Cosa sia caduto sotto le forbici non lo sappiamo. Siamo in tempi di guerra fredda, di blocchi contrapposti, del Muro di Berlino e del Vietnam, lo scontro ideologico è pane quotidiano nella dialettica politica. Questo era il contesto: rigore calvinista, quasi vittoriano. “Censore io? Tutta propaganda del Pci”, si è sempre difeso Andreotti.

E dunque rendiamo onore a un “Divo” grande statista che avrà avuto il suo livello sotterraneo (in questo molto italiano, è il nostro dna e Andreotti non ha fatto eccezione), ma che amò il cinema e lo aiutò. Oggi si fa rimpiangere: sono i tempi bui dei Razzi, i De Gregorio, le Picierno, su cui meglio stendere un pietoso “No comment”.

Ancor più in anni in cui alla cultura (e al cinema) si destinano le briciole infinitesimali, mentre la Francia, sostenendola, l’ha fatta superare, come fatturato, l’industria automobilistica. Noi siamo ancora a quel ministro che, anni fa, si ridicolizzò sospirando: “Con la cultura non si mangia…”. Il resto l’ha fatto l’etica berlusconiana e la sua ontologica subcultura. O tempora, o mores!