San Valentino 2015: “Mio caro tesoro…”, anche i grandi scrivevano lettere d’amore

di Francesco Greco - “Mio caro tesoro…”: di chi è l’incipit di questa lettera a Jenny? Keats? Byron? Goethe? Elizabeth Browning? Sylvia Plath? Nessuno di tutti questi: a Karl Marx. Parte da Manchester, è datata 21 giugno 1856 e il filosofo, economista tedesco (1818-1883) scrive all’amata moglie Jenny von Westphalen, figlia del barone Ludwig. L’ha conosciuta quando aveva 18 anni, si è fidanzato in tutta segretezza e si ignora la data delle nozze.

Una delle più grandi storie d’amore dell’Ottocento: Marx è un genio, ma non ha idea di come si portino i soldi a casa per mantenere la famiglia. A soffrirne è Jenny, trascinata anche lei nella lotta politica per l’emancipazione delle masse popolari. Morirà nel 1881, il marito due anni più tardi. Riposano uno accanto all’altro a Londra, cimitero di Highgate. Le lettere (alcuni ricordano anche l’ora) scritte alle donne, mogli, amanti, svelano molto dei grandi uomini di ogni tempo: filosofi, artisti, politici, musicisti, scrittori, poeti. Perché in quelle righe sono loro stessi, non sono costretti a tener fede alla loro immagine pubblica costruita da loro stessi o da maghi della comunicazione (B. non ha inventato niente e nemmeno il suo sodale da Rignano): sono veri, privi di orpelli e finzioni.

Per cui è davvero geniale l’idea di assemblarle e proporle ai lettori per l’imminente San Valentino, non fosse altro che per vedere come cambiano i sentimenti e il modo di descriverli al tempo di Facebook, Twitter, Instagram, i messaggini, YouTube. “Lettere d’amore di uomini e donne straordinari”, di AA.VV., Piano B Edizioni, Prato 2015, pp. 200, € 15 (fuori collana) è un libro delizioso, denso di scoperte, stupori, desideri, pagina dopo pagina. Che relativizza un sacco tanto ciarpame che si scrive e si pubblica oggi sul tema: banalità, manierismi, sdolcinature a cui si vuol dare un retroterra psicologico, sociologico, antropologico, ma che troppo spesso restano solo vuote esercitazioni accademiche infarcite di luoghi comuni.

Il libro è peraltro impreziosito da bellissime lettere inedite: di Jack London, Walt Withman, George Washington e Lewis Carroll. “Mia carissima Gertrude – scrive l’autore di Alice nel paese delle meraviglie – sarai dispiaciuta, e sorpresa, e perplessa, a leggere dello strano malanno che mi ha preso da quando sei andata via…”. A dire della volgarità del nostro tempo: siamo stato capaci ci insudiciare il nome del grande scrittore, matematico e fotografo britannico (1832-1898) con accuse, postume, di pedofilia. “Buongiorno mio angelo diletto, ti abbraccio forte forte…”, scrive Fëdor Dostoevskij (1821-1881) il 17 maggio 1867 ad Anja Grigor’evna, la giovane stenografa che ha sposato in seconde nozze (l’autore dei “Fratelli Karamazov” era rimasto vedovo). Esule invece era il politico, scrittore e filosofo romano Cicerone (106 a. C. – 43 a. C.) a causa delle sue trame in tempi in cui i complotti politici erano pane quotidiano, come oggi: “A te, poi, e alla nostra figliola, non posso scrivere senza che mi sgorghino le lacrime dagli occhi”, verga da Tessalonica (poi lo mandarono in Albania, a Durazzo) a Terenzia, ricca patrizia romana sposata nel 77 e che collaborò, come fu per Jenny con Marx, alle sue vicissitudini politiche. La ripudiò pochi anni prima di morire.

Esule per dieci anni fu anche Ovidio (43 a. C. – 18 d. C.): Augusto lo spedì a Tomi, sul Mar Nero, dove morì. In quel tempo i poeti erano pericolosi, oggi sono innocui, non se li fila nessuno. Ovidio sogna di tornare in patria e scrive a Fabia (la terza moglie, il grande amore): “Orsa maggiore e minore, costellazioni che dirigete, senza mai immergervi, l’una le navi greche, l’altra quelle fenicie…”. “Caro amore. Come sono stufo, stufo, stufo di Dublino! Città fallimentare, di rancori e di infelicità. Sogno di non esserci più”, confida James Joyce (1882-1941) a Nora il 12 agosto 1909. In realtà, dopo “Gente di Dublino”, anche i suoi concittadini sognano di non vederlo più per averli dipinti a tinte forti. “Le tremende lotte che abbiamo sostenuto come potevano finire, se non con la vittoria su ogni desiderio?”, scrive il 6 luglio 1858 Richard Wagner (1813-1883) a Mathilde Wesendonck. Altre lettere di Majakovskij, Gramsci, Plinio il Giovane, Abelardo/Eloisa, Pessoa, Campana, London, Proust, Svevo, Sant’Agostino, San Paolo, Bembo/Borgia, Strindberg, Martin Lutero, Enrico VIII/Anna Bolena, Elisabetta d’Inghilterra, Enrico IV di Francia, Cartesio, Voltaire, Diderot, Apollinaire, Rilke, Shaw, Wilde, Bloy, Twain, Tolstoj, Brahms, Flaubert, Baudelaire, Kirkegaard, Cavour, Poe, Carducci, Mazzini, Goethe, Maria Antonietta, Schiller, Mozart, Napoleone, Holderlin, Wollstonecraft, Beethoven, Pirandello, Foscolo, Byron, Schelley, Keats, Hugo, Balzac, Dickinson.

L’amore declinato e coniugato in tutti i modi, con dolcezza e disperazione, leggerezza e riconoscenza, tenerezza e nostalgia. A donne che sono sodali, confidenti, complici (di alcune anche le risposte). Lettere da cui abbiamo molto da imparare, se solo volessimo, in tutta modestia, apprendere un minimo di galateo sentimentale, al tempo dei femminicidi, le olgettine, le nipoti di Mubarak, della donna “mistero senza fine bello” la cui complessità è ridotta a una sola dimensione, schiavizzata da stilisti e pubblicitari (le SS del nostro tempo), ridotta a gadget per far vendere più brand, quasi sempre inutili o addirittura velenosi. Post-scriptum per l’editore: va bene escludere Dante, D’Annunzio e Leopardi, di cui si sa tutto, o quasi, ma perché ignorare le vibranti, appassionate missive di Henry Miller, alla sua bellissima, giovanissima amante? “Dear, dear Brenda…”.

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