Crisi economica? Allora cucina alla poverella

di Vittorio Polito - In un momento in cui la crisi economica attanaglia l’Italia, sta aumentando il numero dei poveri e delle persone che hanno difficoltà a sbarcare il lunario, per cui si rende sempre più necessario far ricorso alla cucina cosiddetta dei poveri, descritta da Luigi Sada nel suo libro “Cucina pugliese alla poverella” (I Quaderni del Rosone, Foggia 1991), nel quale notiamo alcune ricette poverissime come ‘Vermicelli col sugo di pesce fuggito’ o ‘Patate con l’agnello fuggito’, ricette semplici, nelle quali manca sia il pesce che l’agnello, e che volentieri propongo ai lettori, assicurando che il risultato è soddisfacente.

Vermicelli col sugo di “pesce fuggito” - La ricetta è settecentesca ed il piatto poverissimo dal momento che il pesce non è presente, ma si utilizzano alghe e pietre marine (ovviamente di mare non inquinato).

Sada nella sua pubblicazione presenta due versioni, una suggerita dal medico-fisico barese Sebastiano Mola, ed una sua personale. Per brevità trascrivo quella di Sada

Fate soffriggere mezza cipolla bianca tritata e aggiungervi 3-4 sassi di mare con alga appena raccolti (naturalmente soffriggerà solo la cipolla...); versare una quantità di pomodori pelati e allungare il sughetto con un mestolo di acqua. Lasciare bollire per 30 minuti. Cuocere al dente, in molta acqua salata, la quantità di vermicelli che si desidera (oppure i tubettini), scolarli e versarli nel sughetto dopo aver eliminato i sassi e l’alga. Rimestare e servire caldissimo.

Patate con l’agnello “fuggito” - Tagliare le patate a rondelle, dopo averle pelate e lavate e sistemarle in una teglia. Aggiungere mezza cipolla affettata, olio, peperoncino, prezzemolo tritato, qualche foglia di alloro, mezzo bicchiere di vino rosso, sale. Passare in forno a fuoco moderato, fino a cottura completa. Il sapore e il profumo che esaleranno sono identici a quello dell’agnello cotto in forno.

Le verdure selvatiche, invece, rappresentavano e rappresentano ancora oggi il piatto più frequente ed economico, poiché costano solo la fatica di cercarle e lavarle. Le persone meno giovani ricorderanno il sublime pancotto, che con la preponderanza del pane era considerato, per i poveri, un piatto da ricchi.

Attualmente pur vivendo in un certo benessere siamo costretti, per le ragioni esposte, a fare rinunce anche a tavola, per cui stanno diminuendo anche i consumi alimentari, ma non dimentichiamo che per i baresi mangiare non significa nutrirsi, ma, prima di ogni cosa, mettersi a tavola.

Lino Patruno in un suo libro scrive «[…] la tavola per i baresi non è una tavola, è un palcoscenico, (...) per il barese mangiare è la più alta forma di comunicazione».

Per i baresi, infatti, la pausa-pranzo non esiste, il pranzo è un rito arcaico che neanche lo stress della vita moderna è riuscito ad intaccare. Sulla nostra tavola prevalgono ortaggi, olio d’oliva, pasta, pane nostrano, pesce, frutti di mare, ecc., ma oggi, per risparmiare, dobbiamo iniziare a fare qualche rinuncia tornando indietro di qualche decennio per ritornare a gustare le ricette di cui sopra e, perché no, anche il classico “Uegghj’e ssale” che il poeta dialettale Domenico Dell’Era (1907-1994), ricorda nel suo testo di poesie in dialetto barese “U munne de tagranne” (Il mondo del nonno – Ed. La Vallisa, Bari 1987), definito da Daniele Giancane, nella prefazione “un tesoro di saggezza eterna”. L’autore riporta una poesia “dal respiro lungo”, dal titolo “La n’venzzione d’u uegghj’e ssale”, che altro non è che un elogio al pane condito con olio e sale. Dell’Era descrive, tra l’altro, con maestria, nella nostra prima lingua, quello che contiene un piatto decorato con cerchi e fiori celesti nel quale fanno bella mostra la cipolla rossa di Acquaviva, l’origano sfarinato, l’olio e certi pomodori verdi e rossi ed il pane duro che immerso in questa sorta di pugliesità “diventava meglio di una brioche o pane di spagna”.

La n’venzzione d’u uegghj’e ssale
di Domenico Dell’Era

«[…] Po’, sembe a la m’brevìse, a la matine,
jind’o pjatte granne cche le cjierche
e le fjure celest’atturn’atturne,
fescenne fescenne, mamme,
preparave u’uegghj’e ssale:
cche la rìgghene, cepodde,
e a squjicce a squjcce u’ uegghje
e certe pemedure, spremute, vjierd’e rrusse,
ca qualche squjiecce, friscke,
m’u senghe angore zzembate m’bacce o musse.
E, appene mettut’a bbagne,
u ppane teste, addevendave megghje
de na brjiosce o ppane de spagne» […].

Affinché nessuno si senta offeso da questa patente di povertà culinaria, mi permetto sottoporvi uno scritto del poeta Caviedes (1645-1697) che è un elogio-critica della figura del povero.

Il povero è stupido, se tace;
e se parla,è uno sciocco;
se sa, è un chiacchierone;
se affabile, un imbroglione;
quando non sopporta, superbo;
codardo, quando è umile;
è pazzo, quando è risoluto;
se coraggioso, è temerario;
presuntuoso, se discreto;
adulatore, se ubbidisce;
e se rifiuta, grossolano;
se pretende, è ardito;
se merita, è senza valore.

Dopo questa ‘abbuffata di ironia culinaria’ ritengo che nessuno possa vietare al vostro povero cronista di andare a comprarsi ‘nu stèzze’ di focaccia povera barese. 

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