La pietra, archetipo dell'identità mediterranea


di Francesco Greco -
Dominare la pietra per avere più terra da coltivare e trovare l'acqua per far crescere le piante: per millenni, sono state le ossessioni dei nostri antenati.
La pietra segnava il paesaggio, per cui occorreva bonificare la terra se si voleva sopravvivere. Che fare allora di quella che si riusciva a cavar fuori dalle zolle? Nascono così le pajare (trulli a tolos, come le tombe micenee, sono datati 1700-1800, ma alcune sono precedenti), etimologicamente depositi di paglia, attrezzi agricoli, vivande.
E poi tutte le sue evoluzioni architettoniche e relativi arricchimenti: le liame, le corti ('ncurtatùri), il vestibolo, i furneddi (forni per cuocere i cibi, la carne, fichi, pomodori, peperoni, le canalizzazioni per raccogliere le acque, ecc. durante la stagione dei lavori e delle colture nei campi, ma in area di Parabita così chiamano le pajare).
Alla pietra Montesardo (il greco Trachion Oros) ha dedicato tre giorni molto intensi e vivi. Titolo “Paesaggi di pietra”. Storicamente il paese della pietra: famoso in tutto il Mediterraneo per i suoi artigiani della pietra a secco. Che contribuisce a determinare il suo dna, a segnare in profondo l'identità del suo popolo.

Al Massarone Sauli (vecchia masseria che nei secoli ha avuto molte vite: da sistema difensivo contro i Turchi alle famiglie che coltivavano il tabacco levantino), l'architetto Luigi Nicolardi, i giovani del progetto “Sac Porta d'Oriente” e l'associazione “Liberazione” che portano avanti progetti legati all'ambiente e alla sostenibilità, hanno sviscerato da ogni visuale la tematica.
Prima serata: il geologo Marcello De Donatis si è intrattenuto sul tema: “La pietra del Capo di Leuca: analogie e differenze” e successivamente è stato presentato il libro di Francesco Baratti “Ecomusei, paesaggi e comunità”, edito da Franco Angeli. Seconda serata: laboratorio del maestro parataro Umberto Lecci, che ha mostrato come avviene la tessitura di un muretto a secco e il seminario “Le architetture in pietra a secco del Capo di Leuca”, di Nicolardi e, terza serata, “I casini del territorio di Presicce”, con una relazione dell'architetto Patrizia Bovinelli e la collaborazione di Giacomo Loparco.


Full immersion dunque nella pietra e nelle sue pregnanze semantiche e identitarie, con citazioni alte: da Marc Augè a Maria Brandon Albini (recuperata da Sergio Torsello) allo stesso Ernesto De Martino. Ecco scorrere le diapositive: le pajare sono quasi sempre a forma di tronco di cono, a cerchi concentrici. Ma cambiano struttura a seconda delle zone e del materiale delle pietre disponibili: tufo, calcareniti, ecc. Nella zona di Gagliano sono a forma tronco-piramidale, a Castrigano i muretti di pietre informi, non sbozzate, sono detti paralupi (cani, volpi).

Ecco i sontuosi pajaroni. Il pavimento quasi sempre di terra e paglia o violu (terra argillosa). Molte hanno una croce scolpita nell'architrave: indicava il rapporto dell'uomo col soprannaturale. Ma era anche un'invocazione per l'abbondanza dei raccolti e la salute delle bestie. La pajara si modifica quando l'uomo si fa stanziale e così appare l'intonaco, il focolare, la volta a botte. Raccoglie l'acqua per irrigare la terra, magari la cerca, da rabdomante (come il padre di Nicolardi), con un ramo d'ulivo. Attorno quasi sempre un fico, un mandorlo: per rinfrescare l'ambiente.


A Miggiano, Ruffano, Montesano appaiono le casedde, che già hanno forma di abitazioni, alcune intorno hanno i pergolati. Le strutture di pietra diventano sempre più complesse: alcune hanno il pollaio, altre le nicchie per lumi e lanterne, i paluni per contenere l'acqua, i giacigli per dormire, le mensole, la stalla con la mangiatoia.

“Per secoli l'uomo ha combattuto contro la pietra”, ha concluso Nicolardi. Una lotta dura ma leale. Che lo arricchiva. Oggi che col cemento e catrame siamo diventati sleali, le pajare crollano, la terra è rimasta sola. E ci si rivolta contro.

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