L’uomo che vide l’infinito: la recensione

di FREDERIC PASCALI — Nella memoria del tempo è facile che si celino storie di individui che in qualche maniera hanno contribuito a cambiare la propria epoca e quelle successive.

Di una di queste si fa carico il regista Matthew Brown portando sul grande schermo la vicenda dell’indiano Srinivasa Ramanujan, uno dei più straordinari talenti matematici che l’umanità abbia mai partorito. Traendo spunto dalla biografia scritta da Robert Kangel nel 1991, Brown costruisce il suo racconto con un incedere aderente al testo, miscelando abilmente la vicenda privata con quella pubblica.

Nell’India inglese Ramanujan è uno dei tanti poverissimi giovani di Madras con la particolarità di possedere una eccezionale predisposizione per la matematica. Sposatosi, e spostatosi nella città di Chennai, riesce a trovare lavoro come impiegato proprio grazie alla sua abilità con i numeri. Qui raccoglie le simpatie di Sir Mukherjee che cerca di supportare il suo talento spingendolo a prendere contatti con l’università di Cambridge. Ramanujan, viste le delusioni raccolte in patria, si decide e nel 1913 scrive a tre eminenti professori del “Trinity College”. Gli risponde Godfrey Hardy invitandolo a raggiungerlo sul suolo britannico. Il giovane indiano accetta entusiasta e, nonostante le incomprensioni iniziali, stringe con Hardy un importante sodalizio umano e scientifico.

“L’uomo che vide l’infinito” è un’opera dai tratti didascalici che si concentra sulla figura del protagonista senza per questo rinunciare a dettagliare il contesto in cui la sua storia si sviluppa. La macchina da presa svolge con destrezza la sceneggiatura, scritta dallo stesso Brown, e si muove con un piglio classico ben cadenzato dalla fotografia nitida e patinata di Larry Smith.

Ne viene fuori un biopic coinvolgente che veicola con eleganza il tema dell’infinito inteso come legame indissolubile, che sia per la matematica, per un amore o per un’amicizia.

Il cast di grandi attori, Dev Partel, “Ramanujan”, Jeremy Irons, “G.H. Hardy”, Toby Jones, “Littlewood”, Stephen Fry, “Sir Francis Spring”, completa un quadro tecnicamente irreprensibile.

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