Il giornalista Salvatore Giannella con ‘La mia vita di corsa’ ci riconsegna il vero ‘campionissimo’

di LIVALCA - In Francia a Reims nel 1958 si corse il campionato del mondo di ciclismo su strada che vide la strepitosa vittoria del nostro Ercole Baldini che riuscì ad avere la meglio sul grande Luison Bobet, l’idolo di casa, sulle cui caratteristiche era stato disegnato il tracciato del percorso. Quel mondiale fu una delle ultime corse del ‘campionissimo’, ma fu anche la consacrazione di un grande uomo, immenso anche nella regia che portò Baldini a diventare campione del mondo: in quella gara Fausto Coppi, come l’ultimo dei gregari, mise il suo orgoglio, la sua classe e la sua ‘autorità’ al servizio di colui che era denominato ‘elettrotreno di Forlì’.

Ho seguito per radio, con mio zio, quell’avvenimento e ricordo con quanta passione il giornalista Adone Carapezzi ripeteva: “Fausto Coppi riporta il gruppo su coloro che tentano una fuga per riprendere Baldini, solo al comando e lanciato verso un solitario arrivo, e spegne sul nascere ogni velleità dei corridori non rassegnati alla sconfitta”. Lo stesso Coppi che l’anno precedente, proprio in coppia con Ercole Baldini, aveva vinto la sua ultima corsa da professionista: Il ‘Trofeo Baracchi’(Gara a cronometro su strada a coppie che Fausto Coppi ha vinto nel  1953,’54 e ’55 in coppia con Riccardo Filippi e che tentò  invano di vincere nel 1950 in coppia con il fratello  Serse, arrivarono secondi; gara che vanta come primatista assoluto di vittorie, cinque, Francesco Moser seguito da Coppi e Baldini con quattro, due di queste vittorie Ercole le ha ottenute in coppia con Aldo Moser, fratello di Francesco).

Caro Salvatore Giannella io in quel lontano 1959, nel velodromo di Barletta che tu ricordi nel particolare e-book del Corriere della Sera ‘LA MIA VITA DI CORSA’ dedicato a FAUSTO COPPI, ero fra il pubblico che tifava per Ercole Baldini nelle sfide che facevano i corridori per essere vicini alla gente e incrementare legittimamente i loro guadagni. Ero in compagnia del giornalista Aurelio Papandrea - convinto da mio padre a portarmi -, impegnato a strappare al vecchio campione, al cospetto del giovane, una sensazionale intervista per il suo settimanale ‘Settegiorni’.  Non avevo ancora dieci anni allora, ma la mia bicicletta a Bari era il ‘terrore’ del quadrilatero Via Crisanzio, De Rossi, Garruba, Q. Sella.

Secondo la magnifica interpretazione-esposizione di Orio Vergani il 2 gennaio 1960 “il grande airone chiuse le sue ali” per sempre.

Salvatore Giannella, nativo di Trinitapoli come ci tiene a far presente la sua grande amica poetessa Grazia Stella Elia, giornalista di successo con un curriculum che lascia senza fiato (come i ciclisti dopo una volata!), ha al suo attivo l’idea di una sagace operazione che dimostra come il genio italico (non a caso ha diretto ‘Genius’, oltre ‘L’Europeo’ e ‘Airone’ e le pagine culturali di ‘Oggi’) sia sempre ‘acceso’: il MAIO, Museo dell’Arte in Ostaggio, si deve ad una sua idea. A Cassina de’ Pecchi, alle porte di Milano, vi è questo Museo dedicato ai tesori culturali trafugati dai nazisti durante la seconda guerra mondiale e mai più tornati in Italia. Il ‘campionissimo’ avrebbe approvato lui che, grazie alla vicinanza della signora Occhini, divenne un grande amante dell’arte. Di questa singolare e sorprendente storia di autentico amore, di cui Faustino Coppi è il frutto più bello, non dobbiamo parlare rispettando la volontà del ciclista. Infatti, come ci fa sapere Giannella che ha scovato tra le pagine del settimanale ‘Oggi’ di oltre mezzo secolo fa un impensato memoriale a puntate in cui Coppi ripercorre le tappe della sua straordinaria carriera con schiettezza e sincerità, il corridore di mondo era geloso della sua vita privata… che non fu mai ‘privata’. ‘La mia vita di corsa’ ci restituisce un campione che soffre sulla bicicletta come tutti gli altri e forse di più: un uomo dal fisico eccezionale, ma con tutte le fragilità umane tipiche della vita che non fa sconti a papi, imperatori e ‘garzoni’ (il mestiere di Coppi prima di diventare ciclista) campioni del mondo.

Diciotto anni di carriera effettiva, ventuno con la guerra, in cui vi sono state 151 vittorie su strada, 5 giri d’Italia (1940, ’47, ’49, ’52, ’53), 2 di Francia (1952, ’53), campione del mondo su strada (1953), campione d’Italia (1942, ’47, ’49) e il record dell’ora stabilito il 7 novembre 1942 al Vigorelli di Milano, velodromo all’epoca ancora in convalescenza per i mali della guerra.

Coppi nella sua lucida ricostruzione della corsa ammette che fu uno sforzo disperato e che riuscì a battere il record del francese Archambaud di appena 31 metri (km 45,871 contro 45,840), ma da quel grande signore della bicicletta che è stato non dice che i cerchi del suo mezzo erano sbilenchi e i tubolari di larga sezione e lui indossò normali calzoncini e maglia di lana. Ci volle la classe e l’eleganza di Jacques Anquetil nel 1956 per battere il record di Coppi, ma qualche mese dopo, sempre al Vigorelli, Ercole Baldini riportò in Italia il primato. In seguito fu Eddy Mercks ad arrivare quasi a km 49,500, ma ci volle Francesco Moser nel 1984 per superare i 51 chilometri, ma è tutta un’altra storia fatta anche di trovate tecnologiche.

Veniamo alle verità, raccontate in prima persona da Coppi, che Giannella pone alla nostra attenzione: l’airone scrisse queste cose nel 1952 quando la sua rivalità con Bartali era ai massimi livelli eppure non manca di ricordare come nel primo Giro d’Italia vinto nel 1940 fu proprio il suo capitano d’allora Bartali che gli procurò una borraccia d’acqua e lo aiutò, in un momento di crisi, a rientrare nel gruppo. (Non è dato sapere se il Ginettaccio abbia in seguito considerato tale gesto la più grande ‘ingenuità’ della sua carriera). Le vittorie di Coppi sono state quasi tutte in solitario, mai in volata e a tal proposito ecco la sua spiegazione: ‘Solo rare volte ho saputo impormi in volata, un po’ per mancanza di uno spunto di velocità veramente efficace e un po’ per un senso di sfiducia, di timidezza, di timore che mi assale al momento in cui devo contendere ad un altro la vittoria in pochi metri’. Qui viene fuori l’uomo buono colui che partecipava a tanti circuiti con tutta la squadra, in modo da dividere con loro i premi in palio.

Quando ero militare a Civitavecchia un ufficiale di carriera di Pinerolo appassionato di ciclismo, cui avevo regalato un autografo di Vittorio Adorni procuratomi da Beppe Lopez, mi raccontava sempre di aver assistito sui tornanti di casa in diretta alla famosa tappa del Giro d’Italia Cuneo Pinerolo del 1949, in cui Coppi inflisse ritardi pesantissimi a tutti.

Mi parlava di pedalata composta di grandissima potenza di Coppi e di sforzo sui pedali di Bartali, a sentire lui gli altri corridori viaggiavano con ore di ritardo: il libro curato da Giannella vede Coppi parlare proprio di questa impresa. L’airone distaccò di 12 minuti Bartali, che a sua volta mise otto minuti fra la sua bici e gli altri ciclisti.  Coppi ci ricorda che anche in quell’occasione ebbe momenti di crisi e ci volle tutto il suo orgoglio per continuare: avrebbe potuto raccontare ‘li ho ‘stracciati’ tutti con la mia pedalata irresistibile in salita’ e…

Nel suo racconto Coppi non dimentica il mitico massaggiatore Cavanna: un amico, un confidente… il suo medico di fiducia. L’uomo che lo ha educato ad essere un atleta servendosi solo dell’esperienza accumulata nel suo quotidiano rapporto con i ciclisti. L’uomo che fu il primo a convincerlo della necessità di cambiare squadra, in modo da non sprecare anni a prendere ordini da Gino Bartali. L’uomo che gli aveva sconsigliato quel viaggio in Africa con Gemignani, Riviere e Anquetil e che aveva sempre ‘odiato’ quella passione improvvisa per la ‘caccia’.   Coppi, nato il 15 settembre del 1919 a Castellania (provate a togliere una ‘i’ e vi troverete a Castellana… per un pomeriggio intero, negli anni che furono, Andrea Castellaneta fece uno ‘scherzo’ ad un giornalista portato nella famiglia della  Gazzetta del Mezzogiorno da Gismondi e completamente sprovvisto di nozioni sul ciclismo; il ‘campionissimo’ risultò, per poche ore, avere  origini nel paese delle grotte… forse Giannella potrà intuire…) è leggenda anche per quella morte ingiusta, che tutti si sono ostinati a considerare ‘stupida’, e che le credenze popolari hanno attribuito a quella ‘punizione’ divina e che invece possiede un altro nome: solfato basico, in arte chinino, che poteva e doveva essere tranquillamente somministrato. Per i grandi uomini a volte la vita ha in serbo un piccolo destino, come piccolo è quel chinino che qualsiasi medico condotto, magari anche Locatelli di cognome, avrebbe potuto fargli inghiottire. Le favole si alimentano con esempi di buoni  e cattivi, ma la trama porta, quasi sempre, ad un lieto fine: morire da ‘campionissimo’, dopo venti anni di  grandi sacrifici ed immense soddisfazioni, quando pensi che stai per intraprendere una vita finalmente serena ed appagante nella normalità, non è altro che il disegno che, il Creatore di tutto,  aveva programmato per quel volenteroso ragazzo di salumeria che serviva le ‘salsicce’ a Cavanna, reduce dai suoi tour in giro per il mondo al seguito dei ciclisti.

Bisognerebbe chiedere a Biagio Cavanna se sia disposto a barattare quei diciotto anni vissuti in più del ‘campionissimo’ (è morto nel 1961 a 68 anni), per una gloria imperitura ed a Coppi se…

Il prezioso volume curato da Giannella ‘La mia vita di corsa’ possiede una piccola morale: tutti corriamo, vi è chi arriva primo, secondo, terzo, ma tutti… arriviamo; fin quando questa classifica è in vita vuol dire che anche il mondo continua a produrre ‘campionissimi’ o semplici ‘campioni’ della specie umana.

P.S.

Amico lettore tutte le citazioni sono frutto della mia memoria (una volta elefantiaca oggi soltanto ‘equinica’) per cui mi affido alla tua indulgenza e dal momento che non sono una persona tecnologica (o meglio quanto basta per non essere ‘rottamato’!)  invito il valente giornalista Giannella, quel professionista che ha curato il dotto libro di Tonino Guerra ‘Polvere di sole’ (Bompiani) e quel giudizioso scrigno di Enzo Biagi ‘Consigli per un Paese normale’ (Rizzoli), raccolta dei dialoghi tenuti con il Maestro, ad evitarmi in avvenire il ‘supplizio’ di  queste lettura su video (probabilmente non è il termine adatto), io sono un uomo di carta: l’odore di quel prodotto industriale, ottenuto da sostanze fibrose macerate e ridotte in poltiglia e quindi in sottili fogli di carta, lo avvertirò fino alla fine. È risaputo che ognuno cavalca la bicicletta che ritiene più congeniale e livalca non è tipo da eccezione.

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